Il paziente difficile da raggiungere, pubblicato nel 1975, è il titolo di un lavoro di Betty Joseph,
un’autorevole psicoanalista di quella scuola post-kleiniana che vede tra i suoi componenti
Rosenfeld, Bion e Meltzer, autori fondamentali per la comprensione ed il trattamento degli stati
psicotici.
Nel suo contributo l’autrice è attenta a ricordare altri autori che hanno trattato dei pazienti
irraggiungibili, a causa di particolarità della loro struttura: Deutsch (1942) nei suoi lavori sulla
personalità come-se, Winnicott (1960) a proposito del falso sé, Meltzer (1966) nel lavoro sulla
pseudomaturità, Rosenfeld (1964) là dove parla della scissione delle parti dipendenti del sé nei
pazienti narcisisti.
Ai tempi della sua pubblicazione, tuttavia, il lavoro della Joseph costituì un importante contributo
perché si proponeva di affrontare il problema della raggiungibilità di pazienti che potevano
presentare strutture psicopatologiche diverse tra loro. Le caratteristiche comuni evidenziate nella
personalità di questi pazienti sono le seguenti: l’estensione e la costanza dei processi di scissione
che riguardano l’insieme del loro mondo interno, ma soprattutto quanto il loro Io – o frammenti di
esso – risultino lontani dalla collaborazione con l’analista.
Punto chiave del lavoro: questi frammenti, a volte davvero embrionali, verrebbero proiettati nella
mente dell’analista, eserciterebbero su di lui una pressione affinché egli “viva una parte del sé del
paziente anziché analizzarla”. In questo modo il paziente fa agire all’analista, “per effetto della
pressione, il bisogno di essere attivo e di concludere qualcosa”. Per B. Joseph questa modalità di
partecipazione dell’analista al processo analitico, di durata ed esito variabile, ha come scopo
rendere possibile che l’Io scisso del paziente possa essere richiamato ad una partecipazione al
lavoro comune.
Mi è sembrato importante il riferimento storico a quest’autrice perché pone il problema della
raggiungibilità chiamando in causa l’attivazione dell’analista. Una novità, per quei tempi, ma che
nello sviluppo successivo del lavoro psicoterapeutico, soprattutto con la sua estensione a patologie
sempre più gravi ed in ambiti diversi rispetto al setting psicoanalitico classico, ha trovato modalità
nuove di espressione. Tali modalità meritano tuttavia di essere pensate non solo perché diverse ed
arricchenti, ma anche per non correre il rischio di precipitare in un agire cieco, mascherato dalla
convinzione di fare la cosa più giusta per quel paziente in quel momento.
In questo contributo mi propongo quindi di presentare e di discutere modi diversi di avvicinare
adolescenti difficili da raggiungere.
Tengo a precisare che non si tratta di quell’essere ‘clandestini’ che caratterizza il nucleo profondo
del sé di ogni essere umano ed attraversa, in misura variabile, tutte le età della vita, l’adolescenza in
particolare. Per i ragazzi/e a cui farò riferimento l’irraggiungibilità era legata ad una strutturazione
altamente deficitaria sia dell’Io che del Sé. Questo rendeva il loro ‘partner interno’ di una possibile
alleanza di lavoro talmente esiguo da richiedere un contenimento fusionale (per usare
un’espressione di Neri, 1990), attraverso il quale il terapeuta recepisse, “per effetto della pressione,
il bisogno di essere attivo e di concludere qualcosa”.
Elena, le voci di un silenzio, un sogno di controtransfert.
Elena è una studentessa universitaria di 21 anni, primogenita di una famiglia medio-borghese in cui
il padre è descritto come persona affettuosa ma intrusiva, la madre distante, meccanica, di una
religiosità da Controriforma.
In un romanzo di Verga viene descritto come un piccolo crocefisso, appeso ad una catenina, faccia
bella mostra di sé tra i seni di una donna del popolo e l’autore commenta: “ci stava proprio bene lì in
mezzo”. Elena, allora 17nne, collega a questa lettura l’ingresso in un mondo parallelo fatto di
pensieri coatti a contenuto blasfemo, di giuramenti e voti espiatori, di paure di contagio.
Come risulterà dal materiale delle sedute di un lungo periodo iniziale dell’analisi, tali pensieri
potevano acquistare tanta intensità da tranciare di netto e immiserire irrimediabilmente spazi di vita
propri di un’adolescente: la relazione con un ragazzo, uscite con gli amici, piccole feste. Lo stato
mentale da essi prodotto nella giovane era talmente caotico, a volte, che, ascoltandola ed
identificandomi con lei, provavo quasi un senso di malessere fisico e di vertigine. Elena, tuttavia, si
diceva contenta di parlarne in seduta perché ne ricavava l’impressione che fossero suoi problemi
psicologici, per lei meno temibili dell’angoscia d’avere commesso gravi peccati, o delle paure
concrete circa la sua integrità.
A poco a poco cominceranno a comparire lunghi periodi di silenzio, si creerà un contrasto netto tra
la presenza puntuale della giovane alle sedute ed il suo tacere, un tacere mimico oltre che verbale.
Dopo una paziente, infruttuosa attesa di una ripresa spontanea della comunicazione, il mio lavoro
con la giovane s’indirizzò al tentativo di mettermi in contatto con lei utilizzando, o piccole cose che
interrompevano la rigida uniformità del silenzio, oppure impressioni, sensazioni riferite a questa
paziente o ad altri pazienti, oppure ad avvenimenti della giornata che attraversavano la mia mente
mentre ero lì in seduta.
Ogni volta mi ponevo il problema di quale credito dare a questo mio processo di libere associazioni,
di come usarle per cercare di stabilire un contatto con Elena al di là del “muro di silenzio”, per usare
una sua felice espressione, dietro cui riprecipitava dopo brevi pause di comunicazione. Era per me
difficile tollerare un miscuglio di sentimenti consistenti, da un lato, in un profondo senso di
inutilità, di assurdità, che mi facevano provare il desiderio di porre unilateralmente termine
all’analisi, se la situazione non si fosse sbloccata; dall’altro lato avevo la sensazione che la mia
impazienza fosse dettata da una giustificabile esigenza di ragionevolezza che limitava però la
comprensione di un’esperienza analitica inconsueta, ma per Elena estremamente importante, come
mi aveva segnalato apertamente o indirettamente, durante alcune riprese della comunicazione.
Riferirò in dettaglio una parte del materiale, nella quale è possibile seguire il passaggio verso una
ripresa della comunicazione.
Il suo ormai cronico silenzio è interrotto dalla breve narrazione di un ritorno delle ossessioni di
essere infettata da siringhe sporche lasciate lungo le strade, e di conseguenza di infettare. In risposta
alla recidiva sintomatica, Elena taglia i contatti con il mondo e quindi anche con me. In analisi
questa chiusura è il sintomo dominante, immodificabile da miei interventi tendenti a riportare il
discorso sul piano simbolico e della relazione. Non capisce questo mio linguaggio: per lei tutto è
concretamente persecutorio.
In questa situazione di grave difficoltà faccio questo sogno: conversavo con una studentessa
universitaria dell’età di Elena, una ragazza spigliata, cocciutamente oppositiva, ma vivace. Avevo
poi una casa nel Nord, tra i ghiacci, difficile da raggiungere e di cui non sapevo che fare.
Il sogno fu molto importante per me, e mi permise una riflessione a diversi livelli. Contribuì a farmi
prendere coscienza di una mia rappresentazione mentale di Elena: non era la studentessa vivace ed
oppositiva, ma la casa del Nord difficile da raggiungere. La studentessa rappresentava il mio
desiderio di vederla evolvere in quella direzione, un desiderio di cui tenere conto nel corso di questa
analisi. Esso, infatti, avrebbe potuto offuscare una mia corretta percezione della situazione psichica
della paziente, contribuendo in tal modo al mantenimento dell’impasse.
La casa del Nord era inoltre connessa con mie vicende personali in cui un evento irreparabile si era
costruito con il favore del silenzio. Questo insight mi permise sia di capire perché il silenzio di E.
fosse per me così penoso, sia di distinguere tra me e lei. Nello stesso tempo, però, proprio
affrontando il fatto che attorno a questo silenzio si giocavano questioni di vita o di morte, poté
rinascere la mia sollecitudine nel lavoro con la paziente. Il mio modo di lavorare con lei fu
modificato tanto nei contenuti quanto nel linguaggio dallo stimolo delle immagini del sogno.
In una seduta dello stesso periodo Elena rompe insolitamente il silenzio, e parla con intensa
partecipazione di quanto la sua vita è ora difficile, di quanto si senta spaventata e pericolosa.
Nell’incontro successivo si dice sorpresa d’aver parlato la sera prima, ma arrivando aveva avvertito
una strana sensazione di calore, un’atmosfera familiare. Aveva avuto l’impressione che il tempo
della seduta fosse più lungo, e che le fosse stato dato qualcosa in più.
Sul percorso metaforico aperto dall’immagine della “casa del Nord” nel sogno dell’analista,
s’inserirà tempo dopo una riflessione da parte di Elena: “Sono come una terra gelata; ci sono alcune
terre dell’Artico di cui, col calore, si sgela solo una parte. È sempre la stessa acqua che sgela e
rigela; c’è un nucleo però che rimane sempre gelato”. Tale osservazione segnala come il lavoro
analitico non possa fermarsi alle acque che si sgelano e rigelano, ma debba affrontare le ragioni di
quel nucleo che rimane sempre gelato. Mi sono accorta in seguito anche dell’apparire saltuario nei
discorsi di Elena di un’amica che ripeteva alcune cose da me dette e, ultimamente, su suggerimento
di quest’amica di attivarsi nell’analisi, è ripresa una più stabile e continuativa comunicazione.
Sandra e una drammatizzazione di gruppo.
Sandra è un’adolescente di 14 anni, al nostro primo incontro piuttosto pallida e sofferente. Nei mesi
antecedenti è stata colpita da una grave epatite autoimmune, diagnosticata con difficoltà, d’incerta
prognosi, e che ha richiesto una lunga ospedalizzazione, esami diagnostici ripetuti, qualcuno
cruento. È stato per lei un periodo di profonda incertezza, compresa quella di non riuscire a
sopravvivere.
Sandra coscientemente sembra non dare troppa importanza a quanto ha trascorso. Si presenta,
inviata dal pediatra che l’ha in cura, per un problema d’insonnia, e disturbi gastrici ritenuti dal
curante di natura psicosomatica. È la secondogenita di tre sorelle, proviene da una famiglia piccolo
borghese, è nata prematura ed è stata in incubatrice per un breve periodo. Viene descritta fin
dall’infanzia come una bambina irrequieta, puntigliosa, già ad otto anni seguita temporaneamente da
una psicologa per un problema di insonnia.
A una fase diagnostica preliminare seguirà il trattamento. I genitori verranno supportati da un
collega.
Dopo un’iniziale discreta collaborazione, in coincidenza di una momentanea assenza, sia mia che
della madre, si acutizza in maniera spasmodica un sintomo fin allora rimasto nell’ombra. Comincerà
a lamentarsi di una “pancia più accentuata del normale, mostruosa, estranea da sé, un cambiamento
del suo corpo che ha spezzato la sua vita in due”. Mai farà, né accetterà, qualunque collegamento tra
la pancia e la malattia autoimmune; tenderà anzi a ripetere che la malattia è per lei di nessuna
importanza. Comparirà una grave sintomatologia anoressica, a mio giudizio un suo modo di
uccidere, affamandolo, il mostro nella pancia. Saranno necessari due ricoveri per denutrizione.
Nel corso di una seduta effettuata in ospedale mi parlerà di un incubo in cui compaiono “feti morti
utilizzati per prodotti di bellezza”, per la prima volta parlerà della pancia come di un “muro dietro
cui è caduta e che la separa dagli altri; li sente lontani, non riesce a rimettersi in contatto con loro”.
“C’è bisogno che venga a prenderti”, rispondo. Si crea un momento d’intensa commozione in cui
Sandra mi afferra una mano. Ma, dopo la dimissione, una pancia concreta, mostruosa, incurabile,
sarà l’unico argomento portato nel corso delle sedute. Si creerà per molti mesi una situazione
paradossale, caratterizzata dalla puntuale partecipazione della ragazza ai nostri incontri e dalla
dichiarazione ripetuta della loro inutilità, visto che il problema che l’affliggeva era di natura
concreta e non capiva che tipo d’aiuto io potevo offrirle parlandone. L’atmosfera era inoltre resa
particolarmente penosa da un pianto disperato, perforante, che occupava buona parte del tempo a
sua disposizione. I miei sforzi erano per lo più destinati al contenimento di questo pianto, verso fine
seduta si stabiliva una breve comunicazione verbale; nell’incontro successivo stesso copione.
Sentendomi in difficoltà parlai di questo caso in un gruppo di discussione; mi furono poco utili le
ipotesi interpretative suggeritemi, avevo l’impressione di non riuscire a comunicare efficacemente la
gravità delle mie difficoltà con questa paziente, non mi sentivo capita. Ma fu proprio grazie a questa
drammatizzazione che feci l’esperienza di essere io, irraggiungibile, dietro il muro. Questo aumentò
la mia comprensione affettiva di questa paziente e la mia tolleranza per un’esperienza dolorosa cui
eravamo, in misura diversa, entrambe esposte.
Qualche mese dopo Sandra riferì un sogno. Tenne a precisare che non era il solito incubo in cui
compariva ossessivamente la pancia, anche se la pancia c’entrava col sogno. Esso inizia in una
clinica psichiatrica in cui sono in corso lavori di ristrutturazione. Poi la scena si sposta in riva al
mare; Sandra è con i compagni di scuola e l’insegnante. Guardando il mare vede una piattaforma
crollata, un aereo è andato a finire contro di essa. Sotto il livello dell’acqua ci sono dei morti. Lei
nuota in questo mare, ma c’è un’amica che la tiene per mano. Racconta il sogno senza associazioni,
ma sono molti gli elementi degni di nota. In un certo senso, esso può considerarsi riassuntivo della
sua complessa situazione psicologica e del lavoro fatto. E’ da segnalare il cambiamento del livello
comunicativo: dall’incubo al sogno. Inoltre, c’è un’amica che la tiene per mano.
Percorsi di elaborazione dell’impasse.
In entrambi i casi clinici descritti, l’impasse della comunicazione è imputabile all’essere finiti dentro
una situazione paradossale, che genera nell’analista un vissuto di assurdità. Elena vuol fare una cura
parlata tacendo, Sandra vuole le sia fatta sparire una pancia concreta. In misura variabile, se non
altro per il duplice significato della difesa, il sintomo ha sempre un carattere paradossale. Tuttavia,
quello che rende particolarmente difficili questi casi è il condividere con il paziente una trappola le
cui morse sono difficilmente allargabili, perché è costantemente in agguato il timore di poter
sperimentare il terrore di morire o di impazzire. Meglio allora l’immobilità del paradosso, lo
svuotamento della propria mente, che il terrore.
Watzlawick e collaboratori (1967), nei loro studi sulla comunicazione paradossale, evidenziano
come una delle sue caratteristiche fondanti è il legame di stretta dipendenza esistente tra i
contraenti, una dipendenza vitale, irrinunciabile, perché legata alla sopravvivenza fisica e
psicologica. L’indispensabilità di tali legami rende problematica una delle possibili uscite dal
paradosso attraverso la loro rottura: troppo grave sarebbe la perdita. Infatti, se l’analisi è spesso
vissuta da questi pazienti come ultima spiaggia, altrettanto delicata è la posizione dell’analista
cimentato dalla speranza di acquisire una più sperimentata identità professionale. Pertanto è
preferibile quel superamento del paradosso che i teorici della comunicazione prevedono possa
verificarsi metacomunicando, cioè guardando dall’alto la situazione e descrivendo ciò che sta
avvenendo in essa.
Come analisti, ci è tuttavia richiesto qualcosa di diverso e di più: spostarsi da un livello descrittivo,
che riguarda gli effetti pragmatici della comunicazione, a quel “secondo sguardo” (Baranger M. W.,
1962) che permette di entrare nel vivo di questo particolare tipo di arresto e di superarlo.
Un primo passo in questa direzione è consistito in entrambi i casi dal fatto che l’analista, ben lungi
dall’esercitare una funzione di specchio, si trova a sperimentare un problema speculare a quello
delle pazienti: l’immagine del “muro” di silenzio e del “muro” del corpo, che per un attimo avevano
incrinato il persistente vuoto rappresentativo di questi trattamenti, corrispondevano nell’analista a
una sensazione controtransferale continuativa e precisa. Questo dava la misura di quanto l’impasse
fosse diventata anche un problema interno all’analista, e di come un’immagine del paziente e del
tipo di difficoltà che si stava attraversando andasse cercata dentro di lui, attuando
contemporaneamente il non facile compito di operare una distinzione con aspetti del proprio sé.
Nel descrivere questi momenti di vissuto indistinto, trovo particolarmente corrispondente la
definizione di contenimento fusionale, utilizzata da Neri (1990): “nell’idea di contenimento
fusionale è importante la fantasia di un involucro costituito da una persona o una situazione con cui
si è un tutt’uno; in tale idea è anche compresa la fantasia di essere tenuto insieme attraverso la
costituzione di un aggregato, di un’intima commistione”.
Se l’essere tutt’uno con la madre ha permesso all’inizio della vita al bambino normale di formarsi
una base di benessere e sicurezza (Winnicott 1962), ugualmente tale tipo di contenimento
costituisce, a mio giudizio, una inevitabile premessa, anche se tutt’altro che garantita dal successo,
per riavviare il cammino interrotto di queste bambine malate. Ma, appunto, operazione non facile
perché per lungo tempo questo tipo di paziente non è in grado di collaborare. Dobbiamo tollerare di
essere confusi con lui e, allo stesso tempo, reciprocamente isolati. Massiccia è la deprivazione di
una comunicazione più adulta fatta di racconti, di associazioni, di sogni; altrettanto imponente è
l’infiltrazione di messaggi ad un livello più primitivo, veicolati da uno sguardo che ora cerca un
contatto, ora ti attraversa, da un cambiamento di postura, dalla modulazione di un tono di voce che
può far presagire un’apertura o l’ennesimo rifiuto, dall’accentuarsi di un odore. Tale è la discrepanza
tra l’impegno che la decodifica di questi messaggi richiede e l’incertezza dei risultati, da produrre
nell’analista un sentimento d’assurdità e d’impotenza. L’assorbimento di una quota di distruttività
sicuramente trasmessa dal contatto con questi pazienti è un’ulteriore causa di difficoltà.
La raccomandazione di Winnicott (1962) a “stare vivo” quando si conduce un trattamento analitico,
mai mi è sembrata più vera ed appropriata che in questi casi; oserei dire che la spinta a “stare vivo”
funge da organizzatore delle strategie di superamento dell’impasse e quindi d’uscita dalla
condizione di contenimento fusionale.
Siccome la mente di ognuno vive del dialogo e per molto tempo le due pazienti sono, ciascuna a suo
modo, così avare di risposte, c’è la necessità per l’analista di attivare altrove un interlocutore che lo
aiuti a pensare a questa strana cosa che si sta svolgendo nella stanza d’analisi come dotata di
significato per ritrovare l’interlocutore-paziente.
Per fare questo è come se la terapeuta dovesse muoversi su più fronti tra loro connessi, l’uno
rinviante all’altro, e solo per comodità espositiva isolabili. Uno di questi è senz’altro il contenimento
di un vissuto claustrofobico d’insofferenza, dell’odio di controtransfert (Winnicott 1947). Entrambi
questi sentimenti, se conosciuti e contenuti, possono illuminare aspetti oscuri del processo analitico
e favorirne la prosecuzione. L’odio di controtransfert inconscio può contribuire, invece,
all’interruzione dell’analisi e rimanere ulteriormente occultato nell’attribuzione esclusiva al paziente
delle responsabilità del fallimento (Gesué 1992). Se paziente ed analista riescono a non espellersi, e
questo rischio non è mai scongiurato una volta per tutte, è necessario mettere in atto un’elaborazione
dell’esperienza che, nei due casi descritti, prima di tornare al paziente, ha esemplificativamente
seguito due vie. Un circuito interpersonale: l’analista ed il gruppo di discussione, l’analista ed i
singoli colleghi; un circuito intrapsichico: parti della mente dell’analista che hanno ricominciato a
funzionare tra loro secondo una relazione contenuto-contenitore.
Come ho già accennato nell’esposizione del materiale clinico di Sandra, la sensazione di
sperimentare dentro di sé un “muro” era generata da un impasto affettivo non districabile e da un
collasso rappresentativo che non permetteva di vedere che cosa stava accadendo. Tale sensazione
controtransferale era probabilmente generata dal passaggio tra analista e paziente di un “nucleo
emotivo dotato di un forte potere pervasivo” (Correale 1989): quel pianto atonale e perforante di
Sandra, che mi era così difficile calmare, era il veicolo elettivo di questo passaggio. È di frequente
osservazione che casi come questi vengano portati in gruppo e, come evidenzia Correale (1989), la
costruzione del campo di esperienza del gruppo di discussione segue le linee di trasformazione
dell’esperienza emotiva comunicata, e il campo risultante è il prodotto dell’attività trasformativa
stessa. Questo è reso possibile dal fatto che i componenti del gruppo, interagendo col racconto del
caso proposto, danno vita ad un doppio fenomeno: di mimesi con l’apparato psichico del paziente ed
allo stesso tempo di distanziamento da esso (Correale 1989). I movimenti attraverso cui si
costruisce il campo di esperienza di gruppo sono di rifrazione-scomposizione e di integrazione, in
continua oscillazione tra loro (Bion 1963).
Tornando al caso specifico di Sandra, per molto tempo un “secondo sguardo” è stato impossibile, ed
esso ha ripreso a funzionare attraverso la drammatizzazione innescata dal gruppo di discussione. Il
lavoro del gruppo si fermò ai movimenti di scomposizione, cui non seguirono movimenti di
integrazione né, tanto meno, l’esercizio di una funzione di contenimento e di rêverie rispetto al
materiale presentato ed a chi lo proponeva. Questa scomposizione sortì, tuttavia, l’effetto di
cominciare a separare e di distinguere gli elementi del conglomerato, ponendo in questo modo la
base per una loro possibile rappresentabilità e di un successivo lavoro di rêverie da parte
dell’analista.
Nello specifico, si animarono nel teatro gruppale due personaggi: un analista-gruppo, che parla
senza riuscire a raggiungere il suo paziente-analista; un analista-paziente, che si sente sempre più
frastornato, non capito, oppositivo. Nonostante tutto, il gruppo di discussione fu ugualmente utile
per due motivi: permise all’analista di fare l’esperienza dalla parte della paziente, e così riscoprire
una vicinanza affettiva che facilitò la prosecuzione del lavoro; un “secondo sguardo” sulla relazione
passò attraverso la riflessione a posteriori dell’analista sulla scomposizione della scena animatasi nel
gruppo, e sulla parte che si era trovata ad interpretarvi.
Analoghe dinamiche rispetto a quelle già descritte possono verificarsi anche nella situazione di
confronto duale. Infatti, soprattutto nei lunghi periodi di silenzio che spesso hanno caratterizzato
l’analisi con Elena, il ricorso alla discussione con qualche collega permise il mantenimento di quel
dialogo interno con questa paziente, che era alla base dei tentativi dell’analista di riprendere una
comunicazione con lei.
Spesso, durante questi silenzi, si verificava un sovraccarico controtransferale di sensazioni,
impressioni, immagini, sicuramente provenienti da un’identificazione molto intima con la paziente,
ma così confusamente impastati con elementi propri dell’analista da non permettere a quest’ultima
quella scissione fisiologica che, in condizioni ottimali, le consente di partecipare ad una esperienza
e contemporaneamente di descriverla. La discussione con il collega aveva la funzione di dirimere
questo agglomerato: poteva accadere che il collega, impressionato dal racconto del materiale
clinico, personificasse momentaneamente un possibile paziente le cui ragioni diventavano più
comprensibili per l’analista. Altre volte era proprio il collega che, guardando dall’esterno quel
miscuglio di due persone diverse trasmesso dal racconto, riusciva a riaprire la via ad un processo di
separazione, evidenziando possibili correlazioni tra i movimenti dei due partner.
Nel caso di Elena, l’uscita dall’impasse e la ripresa della comunicazione passa anche attraverso una
faticosa elaborazione del vissuto controtransferale dell’analista, che sfocia nel sogno della “casa del
Nord”. Questa elaborazione dell’impasse attraverso un sogno di controtransfert merita, a mio
giudizio, un’ulteriore considerazione, che trae spunto dal lavoro di Bion sul gemello immaginario
(1950). Per Bion il gemello immaginario è una parte scissa del paziente, sottratta alla conoscenza,
derivante dalle sue prime dolorose esperienze infantili, la cui funzione consiste nel diniego di una
realtà esterna diversa dal soggetto; allo stesso tempo esprime un’incapacità di tollerare parti della
realtà psichica troppo dolorose perché insufficientemente bonificate. Bion segnala un percorso
analitico attraverso cui, riconosciuta la fantasia di base e conseguentemente le parti scisse, s’arriva
alla personificazione di esse ed alla loro elaborazione persecutoria e depressiva. Il mantenimento
allo stato inconscio del gemello immaginario comporterebbe uno stallo dell’analisi.
In situazioni come quelle descritte è presumibile sia all’opera un gemello immaginario, proveniente
dalla paziente, immobilizzante e pervasivo, ma è altrettanto possibile che l’esposizione dell’analista
ad emozioni così primitive evochi un suo qualche gemello immaginario che la acceca, non
permettendole di vedere la diversità del paziente, e finendo così per colludere nel mantenimento
dell’impasse. Tuttavia, soprattutto quando l’analista deve lavorare in tali condizioni, i propri
fantasmi, se riconosciuti e non agiti, possono rappresentare una prima forma di contatto coi
pazienti. Come nelle identificazioni proiettive messe in atto dal paziente è possibile riconoscere un
certo grado di specificità legato al campo bipersonale creatosi, così quando l’analista, sottoposto ad
una forte pressione emotiva, metterà in campo un suo qualche gemello immaginario, anche questo
sarà, in una certa misura, specifico.
Il sogno di controtransfert permette a questo punto un salto di qualità: il passaggio dal gemello
immaginario al “compagno segreto” (Gaburri 1986), un compagno che testimonia di un lavoro di
riparazione della mente dell’analista (Winnicott 1947), ma al contempo segnala, come il cappello
nell’acqua del racconto di Conrad, una possibile via per uscire dall’impasse. Essa passa attraverso un
riconoscere che è a bordo un proprio sosia perturbante ed un utilizzarlo creativamente, ma in modo
rispettoso e dialettico, per cominciare a dare un volto ad oscure emozioni, comunicate dai pazienti,
fino ad allora non rappresentabili 1
.
1 Nel racconto di Conrad “Il compagno segreto”, il destino di una nave è messo in pericolo dalla necessità, che il
capitano sente, di nascondere e salvare un marinaio clandestino, accusato forse ingiustamente di un delitto, la cui
presenza a bordo è nota solo a lui. Nell’elaborazione che del racconto ha fatto Eugenio Gaburri, questa situazione
narrativa è imparentata alla scoperta di un “gemello immaginario” a bordo di un’analisi, per così dire, che mina in
segreto la capacità di farla evolvere. Sia nel racconto, sia nell’elaborazione, consentire al clandestino di salire in coperta
e di fuggire, nottetempo e sotto costa, è il primo passo per liberare la nave; ma è un passo rischioso: il buio e la
Già M. Klein (1958) evidenziava la presenza di elementi preziosi della personalità e della vita di
fantasia nelle parti scisse del sé e degli impulsi che sono stati ripudiati perché fonte di angoscia e di
dolore. È legittimo immaginare che neanche l’analista sia analizzato completamente ed una volta
per tutte, e che, se alcuni suoi residui non analizzati costituiscono soltanto fonte d’impaccio e di
sofferenza, altri, opportunamente riconosciuti ed integrati, siano alla base di un potenziale creativo
spendibile anche in campo professionale.
Il sogno di controtransfert resta comunque un prodotto della mente dell’analista e come tale va
considerato. Tuttavia un suo utilizzo, secondo le modalità sopra descritte, sottolinea come la mente
del paziente non sia conoscibile in sé, ma a partire dalle emozioni dell’analista. A proposito delle
identificazioni proiettive, Manfredi (1985) ci ricorda come nessun ospite è mai completamente
straniero, ma ci sono pazienti che molto più di altri e per lunghi periodi di tempo debbono essere
cercati nelle deboli tracce che essi lasciano dentro l’analista, e che restano a lungo confuse con
aspetti caratteristici del suo mondo interno. In questi casi le immagini di un sogno costituiscono il
prodotto finale di un lungo percorso che inizia da un’area molto intima di contatto tra paziente ed
analista e può passare attraverso le sensazioni fisiche, il disturbo psicosomatico, la formazione di
immagini più caotiche e passeggere.
Carlo, Abdel, Rachel… e un’azione parlante.
Un terzo tipo di adolescenti difficili da raggiungere è costituito da alcuni di quei ragazzi/e
provenienti da famiglie multiproblematiche, cresciuti in gravi situazioni di carenza, e a volte anche
di maltrattamento e di abuso. Molto spesso, sia con loro, sia con le famiglie sono stati messi in atto
sin dalla prima infanzia tentativi di presa in carico psicoterapica rapidamente abbandonati.
Per comprendere l’insieme del mio discorso, il fallimento di questi primi approcci psicoterapici è un
punto rilevante. La psicoterapia è nata per pazienti capaci di collaborazione “cosciente ed
intellettuale” (Rosenfeld, 1965), perciò adeguati alla comprensione della comunicazione verbale del
loro curante, nella sostanziale convinzione che questa fosse una condizione diffusa nella massa di
chi soffre di disturbi psicologici. Vicende come quelle con Elena e Sandra insegnano che, molto più
spesso di quanto non si credesse, la psicoterapia è una situazione paradossale, nella quale una
collaborazione incapace di attingere un livello intellettuale e cosciente viene, nonostante tutto,
mantenuta nell’ambito di un apparato predisposto a privilegiare la relazione parlata, anche se
questa non veicola ancora significati verbali. Con Carlo, Abdel, Rachel eccetera, siamo dunque un
passo più in là. Avere a disposizione uno spazio, un tempo tutto per loro, essere in due in una stanza
e dovere passare prevalentemente attraverso la parola, scaraventa pazienti così gravi in una
dimensione talmente inconsueta – probabilmente insensata – da suscitare un forte smarrimento e
l’attuazione di fughe.
La relazione per loro può avere solo le caratteristiche di una relazione agita e per raggiungerli può
essere necessaria un’azione. Nella nostra esperienza tale azione è stata la proposta di un progetto
psicoeducativo, una proposta che potrebbe essere utile per molti adolescenti in difficoltà. Abbiamo
inteso per progetto psicoeducativo un programma di accompagnamento ad iniziare o a riprendere
un’attività di studio o di lavoro, rivolto a ragazzi/e tra i 14 e i 18 anni. Un paio dei componenti della
nostra casistica avevano un prolungamento amministrativo della minorità, che non li avrebbe resi
maggiorenni prima dei 21 anni.
In sé, tuttavia, la proposta di partecipare ad un progetto non è commisurata alla specifica condizione
ed agli specifici bisogni di ragazzi/e come quelli di cui stiamo parlando. Fino a qui essa è una
proposta impersonale, sostanzialmente non diversa dalla proposta di un’interpretazione verbale o di
vicinanza della costa creano una situazione di pericolo. Sarà il cappello caduto in acqua del fuggiasco ad indicare la
deriva della nave, e la direzione corretta in cui manovrare per salvarla.
Nel nostro caso, la casa nel Nord rappresenta, appunto, il “gemello immaginario” nell’analista, che viene in coperta
grazie al sogno, e che consente d’intercettare un’analoga presenza nella paziente. La qualità della presenza clandestina
(“un evento irreparabile si era costruito col favore del silenzio”) suggeriva l’atteggiamento da tenere (la manovra) come
il cappello nell’acqua del racconto.
una cura farmacologica. Tutti e tre gli interventi (proposta, interpretazione e farmaci) sarebbero di
fatto un’iniezione di pensiero pensato da altri, somministrato ad un paziente sostanzialmente
affaccendato in tutt’altre faccende, e somministrata solo perché aderente ad un astratto protocollo di
cura. In tutti i casi, che proposta, interpretazione e farmaco corrispondano alle esigenze effettive del
paziente è affidato al caso.
Con questi pazienti c’è dunque il problema di passare da un’azione impersonale ad un’azione
parlante.
Dobbiamo quest’ultimo concetto alla riflessione di Racamier (1997). Racamier, partendo dalla
concezione che nei pazienti psicotici – ma non solo, possiamo aggiungere anche: nelle estese parti
psicotiche della personalità borderline – sussista un’inflazione di processo primario, ha sviluppato
due elementi originali della tecnica terapeutica diversi dall’interpretazione verbale: l’oggetto
parlante e l’azione parlante. Tali variazioni della tecnica hanno lo scopo di superare l’impasse che
si incontra con questi soggetti quando si lavora utilizzando principalmente l’interpretazione verbale.
Noi potremmo dire: ogni volta che si usa qualche mezzo pensato da altri riguardo ad un paziente
che non è ancora in grado di seguire e comprendere, sia pure solo intuitivamente, tale pensiero.
Racamier (1997) fa due esempi.
Emiliana è una schizofrenica “dalla pelle porosa”, che si immischia e si diffonde freneticamente
nelle faccende degli altri, salvo poi venire contagiata dalla loro angoscia, che “assorbe come una
spugna”, e che non sembra si possa sedare se non con le consuete manovre psichiatriche (farmaci,
ricoveri), per lei traumatiche, a contagio avvenuto. Qualcuno dell’equipe ricorda i larghi maglioni
che la paziente indossa come un’inutile difesa. Allo psichiatra viene in mente di proporle l’acquisto
di un poncho, proposta che la paziente fa sua immediatamente: lo indosserà a sua discrezione, ogni
volta che si sentirà angosciata. Una sorta di miniricovero autogestito, e perciò ben controllato,
dall’impatto traumatico minimo e letteralmente cucito sulla sua persona.
Berenice esplode ad ogni contrattempo sbattendo le porte, insultando tutti e fuggendo a casa, dai
genitori, i quali la vorrebbero tenere con sé e contemporaneamente non la sopportano, esattamente
come i curanti, dai quali dovrà tornare. All’ennesima replica del circolo vizioso, lo psichiatra
prende un foglio e lo piega a fisarmonica, trasformandolo in una specie di blocchetto di biglietti:
alla paziente il compito di programmare le trenta ore settimanali a sua disposizione, quando
usarne, come e a che scopo; se ha dei dubbi, chieda consiglio a qualcuno dell’equipe. Sarà la
paziente ad impadronirsi, con senno e diligenza, di questo rovesciamento di rapporto con i curanti,
che le consente di governare secondo le sue esigenze l’equilibrio tra casa e comunità.
Nel caso di Emiliana è stato attivato un oggetto parlante, nel caso di Berenice un’azione parlante.
Racamier sottolinea la natura transizionale degli oggetti implicati, così somigliante al “famoso
orsacchiotto che ognuno di noi conosce dalla sua infanzia, e che un bel giorno Winnicott ha saputo
guardare con occhio intelligentemente nuovo, sottolineando come questo oggetto intermediario sia
al tempo stesso del bambino e della madre, appartiene a lui bebè e non a lui”.
Nel caso di oggetti ed azioni parlanti, Sabucco (2005) sottolinea “una peculiarità nella loro natura
transizionale. Lo psicoanalista-psichiatra attiva tali strumenti in base alla conoscenza del paziente e
ad un identificazione il più possibile corretta a lui, ed in base all’esperienza della reciproca
relazione. Sulla base di queste conoscenze egli sceglie e propone un oggetto o un’azione che gli
paiono poter essere d’aiuto al paziente nell’affrontare un nodo problematico, fonte di un disagio che
non è possibile conoscere e risolvere col pensiero e la parola. Oggetti ed azioni parlanti sono perciò
scelti in relazione ad una sofferenza interiore del paziente, venendo tratti dal mondo della realtà. Se
la cosa ha successo, il paziente potrà toccare con mano che un elemento della realtà ha contribuito a
risolvere uno stato di sofferenza, e che la realtà non è perciò costituita soltanto da una miscela di
oggetti di bisogno immediato e di occasioni di frustrazione traumatica, ma che può contenere anche
risorse capaci di soccorrere e di risolvere.”
Venendo al caso dei ragazzi/e di cui ci siamo occupati l’azione impersonale (il programma
psicoeducativo) è diventata azione parlante attraverso una serie di passaggi che hanno reso tale
proposta terapeutica altamente personalizzata per l’adolescente in questione, per la sua famiglia,
quando presente, per altre figure importanti del contesto in cui vive.
Tale lavoro di personalizzazione si è attuato attraverso una serie di momenti: a) la scelta dei
ragazzi/e che potevano più proficuamente usufruire di tale programma tra quelli proposti dalle
assistenti sociali del Comune di Milano, b) una consultazione psicodiagnostica approfondita con
l’adolescente, i genitori quando presenti, il personale psicoeducativo deputato a collaborare con noi,
c) l’adeguamento del programma a ciascuna situazione, sia nella fase iniziale, sia nel prosieguo,
attraverso un attento monitoraggio del suo svolgimento, effettuato con il lavoro di rete rivolto a tutti
gli operatori che partecipano alla gestione del caso.
Ma di che cosa si compone il messaggio altamente specifico, veicolato con voci diverse dai
componenti la micro-équipe che lavora sul singolo, di cui può parlare questa azione? Si può
riassumerla in queste parole: ‘Siamo interessati a riprendere un contatto con te, siamo consapevoli
degli strumenti che hai e del tuo bisogno di mantenere una distanza. Ti proponiamo, quindi, di
essere aiutato nel fare qualcosa che ti riavvicini al mondo dei coetanei che partecipano di uno
sviluppo più fisiologico del tuo. Lungi da noi il desiderio di uniformarti in maniera forzata. Questo
qualcosa sarà tagliato su misura per te sia all’inizio che nel corso del suo svolgimento. Speriamo
che attraverso l’esperienza di questa azione parlante tu possa riavviare un percorso di separazioneindividuazione
che ti porti su una traiettoria diversa dalla catena traumatica da cui vieni’.
Sono stati seguiti nel modo sopra indicato 11 adolescenti (7 maschi, 4 femmine). Tale presa in
carico è stata possibile grazie a un progetto presentato da 4 psicoterapeuti dell’Apsa-onlus (A.
Gesué, M. Balatti, O. Bardi, L. Carrà), in compartecipazione con i Servizi Sociali del Comune di
Milano. Il nome del progetto era Un modello di intervento psicoeducativo per l’adolescente
maltrattato e/o abusato ed ha ottenuto un finanziamento della Fondazione Cariplo per la durata di
due anni. Per una valutazione in itinere del lavoro che si stava svolgendo è stata approntata una
scheda, appositamente messa a punto (Tabella 1). La micro-equipe che seguiva i singoli casi ha
espresso la propria valutazione sul lavoro svolto attraverso un punteggio attribuito alle diverse voci
della scheda.
TABELLA 1
SCHEDA DI VALUTAZIONE DI PRESA IN CARICO ED EVOLUZIONE DEI CASI CLINICI
SCHEDA DI VALUTAZIONE Presentazione 6 mesi 12 mesi 18 mesi End Point
Sintomatologia psichiatrica
Disturbi comportamentali
Capacità d’applicazione cognitiva
Capacità relazionali
Score totale
LEGENDA
Sintomatologia psichiatrica:
1. nevrotica (per esempio ansia da prestazione,lieve depressione, sintomi ossessivo-compulsivi,
fobie) score da 1 a 3 (a seconda della gravità);
2. psicosomatica o dell’umore (sia che compaia isolata o associata alla precedente) score da 4 a 6;
3. psicotica (della serie schizofrenica) score da 7 a 9.
Disturbi comportamentali:
1. disturbi sporadici non auto o etero lesivi, score da 1 a 3;
2. disturbi frequenti o sistematici non auto o etero lesivi, disturbi sporadici auto e/o etero lesivi score
da 4 a 6;
3. disturbi auto e/o etero lesivi, score da 7 a 9.
Capacità di applicazione cognitiva (iniziare e portare avanti un compito scolastico o lavorativo):
1. normalità o lieve compromissione (difficoltà che non richiedono appositi interventi di sostegno),
score da 1 a 3;
2. comparsa di elementi di impasse che richiedono appositi interventi di sostegno, ma non implicano
l’interruzione del compito, score da 4 a 6;
3. impasse che richiedono appositi interventi di sostegno e minacciano il proseguimento del compito,
score da 7 a 9.
Capacità relazionali:
1. presenza di relazioni significative normali o solo lievemente disturbate con gli adulti di riferimento
(familiari e/o operatori sociali), e/o con i coetanei, score da 1 a 3;
2. relazioni significative disturbate da comportamenti impulsivi, aggressivi, seduttivi o di fuga tali da
richiedere un intervento esterno, score da 4 a 6;
3. assenza persistente di relazioni significative, score da 7 a 9.
Una valutazione più informale dei casi viene fatta con continuità anche al fine di correggere
rapidamente imperfezioni nella valutazione e/o nella conduzione clinica di essi.
Tutti gli adolescenti sono arrivati alla conclusione del progetto, e nessuno ha interrotto. Da un
esame attento, dalla discussione dei percorsi psicoeducativi degli 11 ragazzi/e che abbiamo trattato
e dai punteggi emersi dalle schede sono proponibili le seguenti considerazioni.
Tutti hanno presentato un miglioramento variabile rispetto allo score iniziale, con un valore medio
del 44%.
Il miglioramento è stato maggiore nei casi in cui è stata possibile una collaborazione costante
con gli operatori di riferimento e con le famiglie piuttosto che in rapporto allo score iniziale dei
singoli ragazzi/e espresso nella scheda di valutazione.
Le aree in cui abbiamo rilevato un miglioramento costante e più significativo nei primi diciotto
mesi sono quelle della capacità di applicazione cognitiva e della capacità relazionale, solo
successivamente sono migliorati anche i disturbi del comportamento e la sintomatologia
psichiatrica.
Le due aree cognitive e relazionali sono a nostro giudizio da collegare tra loro. La correlazione
tra i due miglioramenti non ci sorprende in quanto pensiamo che l’investimento dell’operatore
sulla relazione col ragazzo abbia come ricaduta un investimento del ragazzo su se stesso, sul
rapporto con gli adulti di riferimento e sul programma che attraverso di esso viene proposto.
Si può avanzare l’ipotesi che l’area del comportamento e la sintomatologia psichiatrica siano
meno immediatamente sensibili alla facilitazione ambientale perché più vincolate dalla struttura
della personalità e dai precoci apprendimenti procedurali.
Ero partita dalla difficoltà di realizzare con quest’ultimo tipo di adolescenti un contatto che passasse
attraverso l’esclusività del rapporto duale. Per la maggioranza di essi (9 su 11) mantenersi sul filo
del programma psicoeducativo – azione parlante è rimasto il binario su cui dall’inizio alla
conclusione ha viaggiato il lavoro. Per due di essi, in prossimità della conclusione si è aperta la
possibilità di uno spazio psicoterapeutico più tradizionale.
Spero di aver reso efficacemente l’idea delle difficoltà che si possono incontrare nel tentativo di
raggiungere questo tipo d’adolescenti. Spero anche di aver descritto in modo utile e chiaro i diversi
percorsi d’avvicinamento suggeriti dalla pratica di far dialogare i nostri riferimenti teorici con la
nostra esperienza.
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