“Scuola futura. Dialoghi utopici e generativi sulle relazioni educative”

di Fabio Vanni e Vincenza Pellegrino (Erickson, 2022)

Recensione a cura di Cecilia Ruozi

 

E’ il prodotto di una serie di scambi di riflessioni tra due professionisti che hanno esperienza del mondo giovanile e della Scuola come fondamentale contesto di vita e di crescita dei ragazzi. F. Vanni e V. Pellegrino hanno ritenuto interessante poter esprimere per iscritto le proprie conversazioni, racchiudendole in un originale “libricino” ricco di temi che stimolano il ripensamento della Scuola, nella sua funzione educativa-formativa per eccellenza, al fine di fornire qualche spunto concreto per proposte di miglioramento. Inoltre, questo dialogo scritto potrebbe essere l’incipit di una tessitura collettiva raccogliendo pensieri da interlocutori diversi, appartenenti all’ambito scolastico, sociale, educativo o politico. Il prezioso principio di fondo che sottende la trascrizione di tali dialoghi è che in qualsiasi conversazione intellettuale appassionata e, in generale, nell’incontro autentico tra due (o più) Soggetti, presenti a sé stessi nell’hic et nunc dell’interazione, ci sia sempre reciproco arricchimento e che, da esso, ne scaturisca un patrimonio collettivo culturale che può portare mobilitazione del presente e creazione di traiettorie future.

La narrazione del libro si sviluppa lungo la linea distopia-utopia-possibilità. Nella prima parte, vengono riportate con chiarezza le palesi criticità che si riscontrano da anni nelle istituzioni scolastiche e la visione distopica che ne consegue (distopia = “parlare dei mondi peggiori che possono nascere se continuiamo a ignorare le sofferenze del presente dandole per scontate ed ineliminabili” p. 37). Nella seconda parte, gli autori viaggiano nell’utopia per una scuola innovativa, liberando il loro potenziale di pensiero, raccogliendo sogni e pareri di educatori, insegnanti e colleghi. Nella terza parte, nell’ambito della possibilità, si rilanciano alcune esperienze virtuose esistenti, nuove pratiche educative che tentano di superare le criticità.

Tanti sono i nuclei tematici riportati nel libro, nodi di una stessa rete, da cui il lettore può partire e arricchire con la propria visione il dialogo, la riflessione, la proposta di rinnovamento di un sistema scolastico vetusto, in cui troppi soggetti (studenti ed insegnanti) mostrano, in diversi modi, la loro sofferenza percependosi imbrigliati senza possibilità di movimento.

 

Tra le riflessioni distopiche della prima parte, tre sono i concetti che mi hanno fatto sussultare intellettualmente ed emotivamente: RIGIDITA’ del sistema scuola, eccessiva MISURAZIONE e TARGETIZZAZIONE, SEPARAZIONE. Nonostante la scuola non sia più, come anni addietro, l’unica agenzia formativa e nonostante la figura dell’insegnante sia stata destituita dal sommo potere di colui che detiene il Sapere, oggigiorno si rintracciano nelle esperienze scolastiche ancora molte rigidità. È un sistema basato su un modello di educazione-formazione di tipo verticistico, dove il tentativo di utilizzare un severo rigore nel rispetto di regole inapplicabili (ad es. divieto totale dell’uso degli smartphone durante l’orario scolastico oppure i soli 10 minuti di intervallo -pausa mentale, momento socializzante, movimento e distensione fisica) e lo stile autoritario e a tratti incoerente degli adulti non portano minimamente alla creazione di un clima facilitante l’apprendimento.

Un sistema che è ancora basato sulla pedagogia “nera”, dei premi e delle punizioni, fondata su sentimenti legati al timore dell’adulto, del suo giudizio e delle conseguenze (punitive) al proprio comportamento errato. Questa in netta contrapposizione con la visione attuale della DD -Disciplina Dolce- ovvero una pedagogia fondata sui principi del riconoscimento del potenziale intrinseco e del valore di ogni Soggetto umano (bambino o ragazzo), con cui l’adulto nel dialogo empatico costruisce un ambiente relazionale basato sulla chiarezza dei confini e dei ruoli, sulla fiducia ed ascolto profondo. Le domande esplicative che denotano immediatamente una differenza di fondo e che scaturiscono dall’utilizzo di una pedagogia nera possono essere ad esempio: come educare al rispetto non rispettando per primi? Come insegnare a non urlare urlando? Come insegnare l’accoglienza (e la normalità) delle diversità se si è, per primi portati, a certificare, bollando in rigide categorie e talvolta utilizzando strategie discriminanti, le singole differenze umane degli alunni? Con ciò detto, non si insinua che le certificazioni (es. L. 104, DSA, BES, ecc) non siano utili, svolgono una preziosa funzione. A volte però si osserva, nel lavoro quotidiano a scuola, un’esasperazione dell’utilizzo delle stesse. L’intento rimane quello di individuare percorsi specifici per arrivare all’obiettivo formativo dello studente-Soggetto. Talvolta, però, vengono utilizzate per incasellare e separare in modo netto il singolo dal gruppo classe (come se nella restante parte della classe ci fosse omogeneità…).

In ogni dove compare la funzione certificativa della scuola: il docente che è chiamato a verificare se il sapere trasmesso in modo verticistico è stato memorizzato e riprodotto in modo adeguato ed emettere l’idoneità (o meno) a crescere. Questo vale per voti e promozione/bocciatura, ma anche per note, provvedimenti disciplinari (sospensioni dalle lezioni) hanno questo “obiettivo” di valutare e sanzionare trascurando la parte ri-educativa fondamentale. Si crea, nei ragazzi, un atteggiamento di “corsa ad arrivare ad essere nel giusto target”. Corsa che spesso è fonte di ansia, insoddisfazione, senso di inadeguatezza e che, se si cronicizza, diventa una posizione depressiva soggettiva e generalizzata. L’assetto performante con l’accento al raggiungimento di un certo target/posizione che si tende a non raggiungere mai, rende il processo di insegnamento-apprendimento come una corsa ad ostacoli infinita, dove non si può dedicare tempo alla riflessione critica, all’alimentare la voglia di sapere e sentire spontaneamente il bisogno di imparare e la curiosità di esplorare l’ignoto.

Tutto ciò lo si riscontra nel quotidiano, lavorando a scuola, sia negli studenti che negli insegnanti. Questo meccanismo a volte dà come esito la separazione. Separazione, che può essere intesa come abbandono scolastico o ritiro sociale degli studenti. Con quest’agito, i ragazzi comunicano il loro malcontento, la loro critica ad un’organizzazione rigida ed anacronistica. Separazione va intesa anche come richiesta degli insegnanti di trasferimento da una scuola ad un’altra: decisione spesso frutto di sentimenti legati alla stanchezza, frustrazione, senso di solitudine e di sovraccarico di burocrazia. Sentono che il loro agire quotidiano (imposto) non è più allineato con il loro mandato principale che punta dritto al cuore del concetto di educazione, intesa come “umanizzazione alla vita, come piena attuazione delle potenzialità della persona e come processo assolutamente umano di continua rilettura dell’essere (misteriosamente e straordinariamente) vivi” (Francoise Dolto).

Il lavoro degli insegnanti, in quanto educatori, dovrebbe essere riconosciuto come uno dei più decisivi nella formazione del Soggetto. L’insegnamento ha a che fare con la soggettivazione (Recalcati, 2014) e ha bisogno di essere rivalorizzato e considerato un processo da cui discende il poter diventare soggetti (Rovatti, 2013).

Non è più tempo dell’educazione come imposizione, “dove l’allievo viene assimilato ad una vite storta da raddrizzare (Scuola-Edipo). Siamo passati ad una visione dello studente come macchina che deve esprimere prestazioni adeguate nella Scuola-Narciso. […] Se nel primo prevale l’istanza morale-valoriale, nel secondo prevale l’istanza cognitiva-performativa: l’apprendimento è il riempimento del cervello di files che segue l’ideale travasamento di informazioni nella sua memoria. All’illusione botanica si è sostituita quella tecnologico-cognitivista: morte dei libri, informatizzazione degli strumenti didattici, esaltazione delle metodologie dell’apprendimento, accanimento valutativo, burocratizzazione fatale della funzione dell’insegnante che deve sempre più rispondere alle esigenze dell’istituzione e non a quella degli allievi, declino dell’ora di lezione” (Recalcati, 2014 p. 89).

La scuola separa parecchio: il mondo giovanile e il mondo degli adulti (genitori che devono andare a lavorare) e all’interno del mondo giovanile la separazione avviene per età (classi, dove il ripetente non è visto di buon occhio) e per classi sociali. Si sceglie la tipologia di scuola (dai licei ai professionali) e, in questa operazione, si categorizzano studenti e famiglie in contenitori piuttosto chiusi. Quest’aspetto è evidente nel passaggio dalla terza media alla secondaria di II grado. L’orientamento scolastico proposto ai preadolescenti è troppo agganciato alla professione futura. Due considerazioni. La formazione che avviene a scuola è globale e profonda e non può essere finalizzata esclusivamente all’acquisizione di nozioni e tecniche. I ragazzi non possono scegliere la scuola secondaria di II grado in virtù del lavoro futuro poiché la scuola prepara oggi gli adulti del domani che andranno a cimentarsi in professioni che ancora non esistono, che magari si svilupperanno nell’arco delle prossime decadi e che, per le professioni già presenti, non sappiamo come si concretizzeranno nell’avvenire. La velocità e la dinamicità con cui il mondo sociale-tecnologico-culturale cambia è una variabile significativa. La scelta della scuola superiore non può essere agganciata a questo, ma ad altri punti basici. Orientamento, quindi, non come momento il cui esito è LA scelta, ma come percorso continuo alla scoperta di sé e del mondo.

 

Nella seconda parte della narrazione si è dato spazio all’immaginazione e alla voglia di r-innovare: si sono “accesi i motori per gonfiare le nuvole in cielo”. Uno sguardo libero da costrizioni ed incongruenze attuali aiuta il lettore a contribuire con la propria visione speranzosa. Così, gli autori prospettano una scuola situata nel mondo con una sua presenza sociale, dove si possa superare chiusure e categorizzazioni, valorizzando le due forme di relazionalità attraverso cui si apprende: la relazione docente-studente (spesso troppo concettuale, mentale e confinata nelle aule scolastiche) e la relazione tra pari (corporea ed emotiva) ed inserendole in ambienti di apprendimento diversi:  non solo aula scolastica, ma anche spazi aperti- cortili e giardini- (riprendendo l’accento che, nella fascia 0-6 anni, ha l’outdoor education) e in altri spazi della propria realtà territoriale (musei, contesti associativi, artistico-culturali, educativo-ricreativi, storici, naturali, ecc.). Una scuola “glocale” (p. 51-52) dove, attraverso la connessione tecnologica, si stabiliscono gemellaggi didattici ed esperienziali con scuole o altre agenzie formative nazionali o internazionali.

Una scuola intergenerazionale ed interdisciplinare, dove le lezioni vengono favorite dagli insegnanti curricolari, ma anche da altri “sapienti” (volontari di associazioni del terzo settore, botanici, artisti, fisici, lavoratori in settori più disparati, nonni, ecc.); un ambiente accogliente e cooperativo, dove il sapere viene condiviso tra insegnanti di discipline diverse, proponendo alla classe un’ora di lezione che enfatizzi il nesso che collega le materie e che faccia emergere la passione e l’entusiasmo dei docenti nel condividere contenuti personalizzati, interiorizzati e “fatti propri”.

 

Lezioni supportate non solo dal docente ma da più soggetti competenti insieme che variano in base agli obiettivi specifici. Una soluzione dove l’apprendimento è frutto di un’esperienza vissuta a 360° (dentro e fuori la scuola, dentro la vita!).

 

La scuola come luogo speciale in cui si dia rilievo proprio alla competenza dei ragazzi di creare visioni (utopiche o realistiche), immaginare, ipotizzare slanci nuovi per il futuro, sia del singolo sia della collettività. Non trasmettere solo conoscenze (necessarie) past-based, che legano passato-presente, ma anche (e soprattutto) conoscenze future-based (p.46) che collegano il presente al futuro.

Insegnanti come accompagnatori che definiscono metodologicamente come muoversi affinché i ragazzi possano fare quest’esperienza (immaginativa) del regno del desiderio futuro, delle aspirazioni per sé e per la comunità e possano produrre, sentendosi protagonisti insieme ad altri, pensieri e cambiamenti dell’assetto sociale.

Attraverso il percorso formativo, nella relazione con l’Altro, si definiscono via via gli adulti di domani. Si dice -il futuro è nelle loro mani- ed effettivamente i ragazzi sono capaci di virate eccezionali se hanno una stella polare che li orienta e una traiettoria da seguire.

Nella mia esperienza a scuola con i ragazzi, soprattutto di 4° e 5° superiore, emerge chiaramente il bisogno di pensarsi e pensare ad un progetto futuro. Questa operazione tendenzialmente viene fatta “in sordina” dai ragazzi stessi, con le loro famiglie o in altri contesti. Ancora troppo poco a scuola. Ad alcuni di questi giovani risulta molto complesso questo lavorìo interiore in solitaria e l’esito è di disorientamento, spaesamento e, ad un certo punto, arresto. Negli ultimi anni, ho riscontrato una percentuale molto alta di studenti che, nel corso del quinto anno, poco prima del diploma, smettono di frequentare. Spariscono, si ritirano. Questo perché per poter spiccare il volo, dopo il diploma di maturità, è indispensabile avere un’idea di sé nel futuro. Almeno una proposta per sé e una visione sufficientemente positiva-speranzosa sia di sé che del mondo là fuori. Senza quel pesante pachiderma (la scuola per i ragazzi) e senza la fiducia nella capacità di inventarsi nel futuro, i ragazzi stessi si sentono confusi e si bloccano. Allora per prevenire tutto ciò, hanno bisogno di incontrare adulti che li allenino a sentirsi autorizzati a pensare il futuro e che gli diano in mano la possibilità di farlo, accompagnandoli nel dare un senso (soggettivo) al presente.

 

I ragazzi chiedono spesso “A cosa serve la scuola? A cosa serve studiare la storia, la matematica ecc.?” se non è più agganciabile esclusivamente alla formazione professionale (Lancini, 2020).

Innanzitutto, hanno bisogno di condividere che quel sapere è parziale, non dato nella sua completezza, è imperfetto, insaturo e che tocca direttamente ai ragazzi cimentarsi in un viaggio di scoperta di nuove conoscenze e nuovi mondi. Inoltre, hanno forse bisogno di sapere che qualsiasi sia la materia proposta, essa è un mezzo: è un pretesto, un “terzo” che entra in una relazione significativa tra insegnante ed allievo. In quello spazio relazionale, si situa l’apprendimento di entrambi i soggetti, su entrambi e sul modo di funzionare nel/del mondo.

Si studiano le discipline non per il successo professionale, non per scalare le vette, non per un riconoscimento sociale e nemmeno per “omologazione” alla società performante, ma per toccare la Presenza a sé stessi.

La didattica come strumento per accendere il desiderio di continuare a ricercare il proprio sapere (su di sé e sul mondo). L’insegnante come formatore, che porta tutto sé stesso nella lezione. Porta il suo sapere (memoria di conoscenze ed esperienze specifiche), ma anche il suo sé personale, il suo stile, le sue sovrastrutture (i vorrei, dovrei, fantasmi, preoccupazioni), porta il suo sguardo a sé e ai ragazzi.

Gli insegnanti, attraverso le discipline, supportano lo studente ad allenare le Life/Soft Skills (es. abilità cognitive, emotive e relazionali quali decision making, problem solving, pensiero critico e creativo, buona conoscenza di sé, stile comunicativo- relazionale efficace, adeguata gestione delle emozioni, dello stress e capacità empatica) che, nella flessibilità dell’utilizzo, favoriscono un buon livello di benessere soggettivo, ovvero un buon ambientamento (non inserimento) nel proprio contesto di vita, perennemente mutevole, procedendo a piccoli passi, armonizzando sé stessi al contesto e il contesto a sé.

 

La terza è la parte dedicata alle proposte. Partendo dagli spunti utopici, si condivide il fatto che negli anni sono state fatte sperimentazioni singole da scuole lungimiranti. Vanni sottolinea l’importanza di utilizzare la logica del bottom-up, rilevando le esperienze virtuose e mettendole in circolo il più possibile, con l’obiettivo di arrivare a mettere a sistema aspetti concettuali e metodologico-operativi nuovi. Riporto di seguito, alcuni spunti per ampliare il contributo degli autori. Proposte che magari hanno radici in altri ordini di scuola, ma che con un ripensamento possono essere rilanci interessanti anche per la scuola secondaria:

  • Scuola aperta: con un biennio comune o con la possibilità di scegliere una scuola secondaria, frequentando laboratori o corsi in altre scuole, per far sì che gli studenti continuino il loro percorso di orientamento alla scoperta dei propri interessi.

Una scuola da vivere, aperta nell’arco della giornata, anche al pomeriggio, con possibilità di aumentare l’offerta di attività curriculari sportive, motorie o artistiche.

  • Scuola- ambiente di apprendimento: rivalutazione e maggior cura degli spazi interni ed esterni avendo consapevolezza di quanto sia determinante l’interazione con l’ambiente nel processo di apprendimento (John Dewey). Si possono riprendere i principi fondanti l’Outdoor Education (interdisciplinarità, sviluppo di relazioni interpersonali e di relazioni ecosistemiche) che si concretizzano in “esperienze pedagogiche che si svolgono in contesti naturali (giardino della scuola, parchi, fattorie, ecc.) ma anche a percorsi didattici realizzati in ambienti urbani (musei, piazze, parchi cittadini, ecc.), dove è garantito un rapporto diretto e concreto con il mondo reale e il coinvolgimento nella sua interezza del soggetto in formazione (dimensioni cognitiva, fisica, affettiva e relazionale)”.

Utile riprendere anche il Modello (di scuola primaria) Senza Zaino: altro esempio di sperimentazione, nata a Lucca nel 2002, che da progetto è diventato modello riconosciuto dal MIUR, attualmente diffuso in tutta Italia. I principi su cui si fonda possono essere trasferiti anche ad un modello nuovo di scuola sec. di secondo grado: ospitalità dell’aula (accogliente, ordinata, organizzata in aree e in isole), responsabilità didattica (centralità di una didattica attiva, compartecipata, circolare, relazionale tra pari, esperienziale), comunità (di luogo, pensiero, visione e di pratiche).

  • Didattica: utilizzando un metodo cooperativo di gestione delle lezioni in classe (S. Rossi, 2018). L’ora di lezione viene trasformata in occasione preziosa per gli studenti che sono protagonisti attivi (Lancini, 2020) e per gli insegnanti che possono concedersi di sentire e far emergere quella passione per il proprio lavoro che ha animato la scelta di quella carriera professionale (Recalcati, 2014).
  • Valutazione: non più un timbro che semplifica e categorizza gli allievi, ma uno dei tanti strumenti di monitoraggio del percorso formativo soggettivo. Da riprendere il cambiamento ministeriale che, dall’a.s. 2020/21, è stato fatto alla scuola primaria: non più voti, ma lavalutazione periodica e finale degli apprendimenti è espressa, per ciascuna delle discipline di studio, attraverso un giudizio descrittivo riportato nel documento di valutazione, nella prospettiva formativa della valutazione e della valorizzazione del miglioramento degli apprendimenti. I giudizi descrittivi sono riferiti agli obiettivi oggetto di valutazione definiti nel curricolo d’istituto e sono correlati a differenti livelli di apprendimento” (istruzione.it). Un’attenzione viene data ai bambini di prima primaria ai quali, nel primo quadrimestre, non vengono espressi neanche i giudizi, evidenziando il rispetto dei tempi soggettivi di ogni bambino nel muovere i primi passi nel proprio percorso scolastico.

Per concludere una Scuola -Comunità d’insieme-, dove si possa aver cura del benessere dei ragazzi, ma anche degli adulti-formatori. Un luogo dove si possa coltivare la comunicazione, collaborazione, coesione tra insegnanti per allineare l’operatività. Una scuola dove gli insegnanti possano superare sentimenti di solitudine, sovraccarico e frustrazione, e possano sentirsi appartenenti ad un insieme, ad una squadra, ad una comunità inevitabilmente in cammino.

 

SULL’AUTRICE

Cecilia Ruozi, SIPRe Parma. Psicologa psicoterapeuta e psicologa scolastica.

E-mail: cecilia.ruozi.psicologa@gmail.com

 

Riferimenti bibliografici/sitografici:

Lancini M., Cosa serve ai nostri ragazzi. I nuovi adolescenti spiegati ai genitori, agli insegnanti, agli adulti. UTET, Milano, 2020.

Negretti M., Negretti D. e Mascetti M., Tentazioni e tentativi nel lavoro quotidiano dell’insegnante: riflessioni oltre la pedagogia della Presenza, in Ricerca Psicoanalitica, Anno XXXIII, n.1, 2022, pp. 27- 40.

Recalcati M., L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino, 2014.

Rossi S., Didattica cooperativa e classi difficili, Pearson, Milano, 2018.

Rovatti P.A., Soggettivazioni, in B. Bonino (a cura di), La scuola impossibile, Il Saggiatore, Milano, 2013, pag. 46.

https://innovazione.indire.it/avanguardieeducative/outdoor-education

https://www.senzazaino.it/chi-siamo/visione/i-3-valori-senza-zaino

https://www.istruzione.it/valutazione-scuola-primaria/

 

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