Questo testo è stato pubblicato nel 2012 nella rivista The Psychoanalytic Quartely. Mi permetto di riproporne i contenuti perché è inedito in italiano.

La creazione di un nuovo “spazio” nella teoria e nella clinica psicoanalitica, uno spazio che introduce radicali innovazioni nei modelli preesistenti, è un processo arduo da cogliere, concettualizzare e, a volte, comprendere. Spesso, infatti, non viene colta appieno la portata rivoluzionaria che il pensiero di alcuni autori ha o potrebbe avere sulla concezione psicoanalitica della mente e del trattamento analitico. Ritengo però che esistano alcuni snodi teorico clinici che, se mostrati in tutta la loro complessità, ci permettono di comprendere apres coup il carattere profondamente trasformativo di posizioni che hanno segnato implicitamente – se non ne è stato sufficientemente colto il significato teorico – l’evoluzione della psicoanalisi, generando spazi precedentemente inesplorati. Possiamo cogliere uno di questi snodi attraverso l’analisi del concetto di controtransfert nel periodo che va dal 1945 al 1953, periodo straordinario durante il quale compaiono, tra gli altri, gli scritti “Lo sviluppo emozionale primario”, “Note su alcuni meccanismi schizoidi”, “L’odio nel controtransfert” e gli interventi di Bion, Rosenfeld e M. Klein al Congresso IPA di Londra del 1953. In realtà prescinderò da questioni inerenti alla tecnica (e all’uso del controtransfert) e utilizzerò invece tale analisi come una sorta di prisma, per evidenziare le origini di una formidabile trasformazione della teoria psicoanalitica. A tal fine ho bisogno di iniziare dalla “fine” di questo breve periodo, riportando brevemente le posizioni inedite di M. Klein sul controtransfert per mostrare una delle punte più avanzate della ricerca nell’ambito del modello delle relazioni oggettuali inconsce; procederò poi “retroattivamente”, analizzando quanto elaborò Winnicott ne “Lo sviluppo emozionale primario” del 1945 e soprattutto ne “L’odio nel controtransfert” del 1947, lavoro che pone le basi di un nuovo modo di intendere le relazioni tra l’inconscio del soggetto e quello dell’oggetto. (1)

1. Due note inedite di M. Klein sul controtransfert

Forse tra gli articoli più citati in assoluto nella letteratura psicoanalitica, “Sul controtransfert” di P. Heimann del 1950 segna senz’altro una svolta nella concezione del controtransfert: da ostacolo e segno di nevrosi dell’analista, a strumento di conoscenza e terapia. E nei primissimi anni ’50 i due più stretti collaboratori della Klein utilizzano il concetto di controtransfert in questa nuova accezione. Rosenfeld definisce il controtransfert una “stazione ricevente” (1952, p. 76) (2) e, in occasione del Congresso Internazionale dell’IPA tenutosi a Londra nel 1953, nella relazione presentata in uno dei Panel, egli scrive: “La difficoltà che prova l’analista a formulare l’interpretazione esatta di cui lo schizofrenico ha bisogno in un momento qualsiasi è spesso notevole e questo si applica tanto ai pazienti cronici quanto a quelli acuti.Il nostro controtransfert è spesso la sola guida. Con questo non intendo dire che dovremmo rivelare i nostri sentimenti al paziente anche se egli sembra richiederlo, ma dovremmo essere sensibili a tutto ciò che il paziente proietta in noi con mezzi verbali e non verbali ed esser capaci di verbalizzare ciò che percepiamo a livello inconscio” (1954, 124; corsivo mio). Inoltre, in un Panel contemporaneo, “The Psychology of Schizofrenia”, che annovera come relatori Bak, Hartmann, Katan e Bion, quest’ultimo presenta il lavoro “Notes on the theory of schizophrenia”. Colpisce l’affermazione che Bion fa quasi in apertura del suo intervento: “Le prove a sostegno di un’interpretazione vanno ricercate nel controtransfert, nel comportamento del paziente e nelle sue associazioni libere. Sebbene abbia una parte molto importante nell’analisi degli schizofrenici, il controtransfert non rientra nei fini del presente articolo” (1954, 47; corsivo mio). Colpisce perché non sarà così frequente nei successivi lavori di Bion una presa di posizione così esplicitamente a favore della utilizzabilità del controtransfert. (3)

M. Klein assisterà e interverrà al Panel dove è relatore Bion: dobbiamo al paziente lavoro di ricerca di R. Hinshelwood, la scoperta di due brevi note inedite di M. Klein sul controtransfert, scritte proprio in occasione di quel Panel, che ci permettono di modificare e ampliare l’idea diffusa che vede la Klein sostanzialmente e inequivocabilmente sulle identiche posizioni di Freud (1910), vale a dire come una risposta nevrotica dell’analista al transfert del paziente e, in ultima analisi, ostacolo alla cura. (4)

La Nota preparata prima del Congresso è esplicitamente dedicata al controtransfert, e l’attenzione è rivolta a quegli atteggiamenti negativi e ostili del paziente che causano nell’analista sentimenti controtransferali di rifiuto: in conseguenza di ciò l’analista rischia di rinforzare il transfert positivo attraverso rassicurazioni oppure, cogliendo solo il transfert negativo e trascurando la sua interrelazione con il transfert positivo, si trova a trattare le proprie angosce contrastando eccessivamente i sentimenti negativi del paziente. Hinshelwood sottolinea come da questa descrizione emerga con chiarezza che la Klein si sta riferendo ad una collusione tra analista e paziente e non, come Freud, esclusivamente alle resistenze e ai complessi dell’analista; inoltre egli sottolinea come la Klein prenda spunto dalla relazione presentata da Bion, e in particolare dalla sua osservazione clinica relativa ai processi di scissione che il paziente mette in atto nella relazione analitica, processi che gli permettono di indurre nell’analista una tensione e una analoga scissione nella sua mente. Proprio la sequenza clinica descritta da Bion, il quale afferma che il paziente “aveva l’intenzione di scindermi, spingendomi a formulare due interpretazioni opposte nello stesso momento”, viene utilizzata dalla Klein per ricordare che l’identificazione proiettiva, cioè “i violenti processi di scissione da parte del paziente e lo spingere dentro l’analista parti del suo Sé e dei suoi impulsi”, provoca “un effetto faticosissimo sull’analista”. Anche in questo passaggio, ribadisce Hinshelwood, la Klein sta sottolineando che il controtransfert “è radicato nella psicodinamica del paziente” (2008, 101): sebbene ella non stia indicando una specificità o una funzione “informativa” del controtransfert, bensì lo legga come una difficoltà che l’analista deve affrontare, sta cogliendo il fatto clinico della scissione della mente dell’analista come reazione all’incontro con il paziente schizofrenico, cioè sta descrivendo, afferma Hinshelwood, “un complesso enactment psichico che implica il trasferimento intrusivo (identificazione proiettiva) di parti della mente e delle esperienze del paziente” (2008, 101).

Quanto compare nella seconda Nota (redatta dopo la sua effettiva partecipazione al Congresso), aggiunse un nuovo importante punto, e cioè che generazioni di analisti hanno posto grande enfasi sulla libido: ciò e la corrispondente trascuratezza dell’ostilità costituiva una reazione controtransferale generale in ogni analista: “Prestando maggiore attenzione alla libido, essi prestarono anche maggiore attenzione al transfert positivo ed in questo modo si salvarono dagli effetti del transfert negativo, cioè dal fatto di avere i sentimenti ostili e di odio del paziente diretti nei loro confronti” (p. 102). Hinshelwood rileva qui come la Klein, pur non essendone pienamente consapevole, stesse leggendo la risposta controtransferale nei termini di “un problema comune che analista e paziente hanno con l’ostilità” (p. 102). In conclusione egli afferma che in queste due brevi note M. Klein, pur mostrando una particolare attenzione e sensibilità nei confronti dei fraintendimenti e del rischio di perdita di insight causati nell’analista dai processi di identificazione proiettiva messi in atto dai pazienti schizofrenici, tuttavia interpretò tali processi come origine del controtransfert. Quindi, pur non elaborando una concezione del controtransfert che permettesse all’analista di utilizzarlo come fonte di informazioni specifiche sul proprio paziente, tentò di “costruire una posizione intermedia, che potrebbe spiegare come, nei primi anni ’50, i seguaci della Klein sentissero che era loro consentita la libertà di sviluppare la nozione di controtransfert” (p. 103).

Fin qui Hinshelwood. Personalmente vorrei aggiungere che le analisi di ricerca con pazienti psicotici, che tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50 i collaboratori più stretti di Melanie Klein portavano avanti, discutendo spesso il materiale clinico con lei, ebbero come punto di indubbio riferimento il suo scritto del 1946 “Note su alcuni meccanismi schizoidi”. In questo ricchissimo testo non rintracciamo alcun riferimento alla posizione e al funzionamento mentale dell’analista, notiamo però, con G. Goretti (2007), un embrionale ed enigmatico accenno ad una visione che non si esaurisce nel punto di vista intrapsichico: “In so far as the mother comes to contain the bad parts of the self…” (riferimenti più espliciti da parte della Klein sul coinvolgimento dell’oggetto, sottolinea la Goretti, saranno rinvenibili in “Sull’identificazione” del 1955). Molto probabilmente furono proprio le tensioni vissute con i pazienti psicotici a permettere che l’attenzione venisse rivolta alle reazioni dell’analista. E Bion, nel lavoro presentato al Congresso, compie un primo spostamento d’accento rispetto alla Klein per quanto concerne la posizione dell’analista: qui egli, partendo dai processi di scissione dettagliatamente analizzati da M. Klein nel 1946, rivolge lo sguardo al funzionamento del paziente e contemporaneamente agli effetti che tale funzionamento ha sull’analista. Ed è anche in relazione a questo spostamento che la Klein può modificare o quanto meno ampliare le sue posizioni sul controtransfert. La sua principale preoccupazione molto probabilmente era che l’analista potesse subire e “usare” il controtransfert a fini difensivi, ma questo non le impedì di comprendere la collusione inconscia tra analista e paziente: ciò che M. Klein iniziò a cogliere furono le implicazioni delle identificazioni proiettive del paziente sulla mente dell’analista, ma non si avventurò a estendere tali effetti al rapporto tra il neonato e la madre.

Nella Nota 1, però, rintracciamo una sorta di programma clinico epistemologico: “Il punto che desidero sottolineare è che soltanto studiando l’origine dei processi di identificazione proiettiva nei primi mesi di vita, nonché le loro implicazioni, l’analista può affrontare in se stesso questa particolare difficoltà controtransferale”. Pur non esplicitando un nesso forte tra l’effetto dell’identificazione proiettiva del paziente sull’analista, e quelle del bambino sulla madre, qui si intravede in embrione quanto meno un nesso potenziale. Quello che nella Nota 1 viene esplicitato è la “profonda influenza sullo sviluppo della concezione e della tecnica psicoanalitica” ad opera dei fatti relativi all’identificazione proiettiva, ma ciò che è in primo piano è il ruolo dello studio e dell’analisi dell’identificazione proiettiva nel permettere all’analista di padroneggiare le difficoltà controtransferali. È questa, nel 1953, la punta più avanzata delle ricerche nell’ambito delle relazioni oggettuali inconsce: anche a partire da qui, molto probabilmente, Bion svilupperà le modifiche al concetto di identificazione proiettiva rintracciabili in Apprendere dall’esperienza (1962), nonché le teorie del contenitore contenuto e della funzione alfa.

2. Verso un modello del funzionamento primitivo della mente

È nel saggio “Lo sviluppo emozionale primario” del 1945 che Winnicott pone le basi del modello teorico clinico che andrà sviluppando nei successivi 25 anni: vi troviamo in embrione, infatti, quasi tutti i principali concetti che caratterizzeranno il suo contributo alla psicoanalisi. (5) Sono da poco terminate le Controversial Discussions, a cui egli non prese sostanzialmente parte attiva, e questo saggio da un lato mostra il suo fortissimo radicamento nel modello kleiniano ma, dall’altro lato, è anche il primo lavoro psicoanalitico nel quale egli inizia a introdurre nel suo modo di concepire lo sviluppo della psiche e la clinica psicoanalitica elementi che lo differenziano in modo sostanziale dalla Klein. Peraltro è singolare il fatto che sia stato proprio questo l’unico scritto winnicottiano che la Klein abbia mai citato (e con apprezzamento). Altrettanto singolare, per il punto di vista che vado esponendo, che lo abbia citato in “Note su alcuni meccanismi schizoidi” del 1946.

Pur non potendo analizzare nel dettaglio questo scritto del 1945, è utile ricordarne la dichiarazione metodologica posta in apertura: poiché è interessato al bambino malato e al bambino piccolo (infant), Winnicott ha deciso di studiare la psicosi in analisi. La sua visione dello sviluppo emozionale primario si basa sulle analisi di 12 psicotici adulti, e sulla convinzione che l’analisi dei pazienti depressi e ipocondriaci, e delle situazioni ancor più primitive non implica modificazioni della tecnica freudiana. A patto, però, che vengano prese “in considerazione le modificazioni della situazione di transfert inerenti a questo genere di lavoro” (p. 176). E quasi immediatamente riscontriamo due importanti differenziazioni dalla Klein: riflettendo sulle conquiste che hanno luogo intorno ai 5 6 mesi di età, egli afferma che il bambino, potendo concepire un proprio “dentro”, acquista la capacità di presumere che anche la madre abbia un “dentro”, e inizia “perciò ad essere importante per lui la madre, con la sua salute mentale e con i suoi umori” (p. 178). È l’inizio di un ampliamento significativo dello sguardo clinico e della ricerca teorica: c’è un prima e un dopo rispetto alla “percepibilità” della presenza materna da parte del bambino e, soprattutto, assumono una configurazione clinica (e teorica) la salute mentale e l’umore della madre.

Dove la premessa metodologica di basare lo studio dello sviluppo emozionale primario sulle analisi di pazienti psicotici, sortisce i suoi maggiori effetti è nella identificazione e nell’analisi delle tre principali “direttrici” dello sviluppo, vale a dire i processi dell’integrazione (a partire da una condizione di non integrazione primaria), della personalizzazione (cioè della costruzione della localizzazione del Sé nel corpo) e della valutazione delle dimensioni spaziali e temporali (cioè della costruzione del rapporto con la realtà). Questa organizzazione concettuale dello sviluppo primario costituisce una prima grande novità rispetto ai precedenti modelli psicoanalitici, (6) mentre una seconda potenziale rivoluzione consiste nell’affermazione che i processi integrativi sono resi possibili dalle esperienze istintuali e dalla tecnica delle cure materne. (7) Una terza fondamentale rottura con le teorizzazioni precedenti consiste nel concepire e nel descrivere il rapporto con la realtà esterna come una capacità che necessita un lento e graduale processo di costruzione nonché l’apporto irrinunciabile della figura materna (si pensi al modo in cui Freud aveva impostato la questione in “Precisazioni su due principi dell’accadere psichico”, ma anche al più complesso lavoro di Ferenczi “Fasi evolutive del senso di realtà”). Questo è il primo riferimento ad una questione che sarà il leitmotiv di tutta la ricerca winnicottiana: lo stabilirsi di un rapporto autentico con la realtà esterna, la distinzione e il fecondo scambio tra realtà e fantasia, la costituzione del senso di essere reali.

In questo lavoro, comunque, Winnicott non riesce a dare piena articolazione a quello che è il contributo del funzionamento psichico della madre allo sviluppo del bambino. Ad eccezione di un unico passaggio, che ci permette però di comprendere l’apertura teorica e clinica che si sta profilando nel suo pensiero:

“In termini di neonato e di seno materno (non pretendo affermare che il seno sia essenziale come mezzo di trasmissione dell’amore materno), possiamo dire che il neonato ha dei bisogni istintuali e delle idee predatorie; e che la madre possiede un seno, il potere di produrre latte e l’idea che le piacerebbe essere attaccata da un bambino affamato. Questi due fenomeni non entrano in rapporto l’uno con l’altro finché madre e bambino non hanno un vissuto comune. La madre, matura ed abile fisicamente, dev’essere l’elemento tollerante e comprensivo, cosicché sarà lei a produrre una situazione da cui, con un po’ di fortuna, deriverà il primo legame che il bambino piccolo stabilisce con un oggetto esterno, un oggetto che è esterno al Sé dal punto di vista del bambino” (1945, 184). Ogden richiama l’attenzione su questo passaggio sottolineando come contenga in nuce “l’idea che il principale asse organizzatore dello sviluppo psicologico siano fin dalle origini l’esperienza di essere vivi e le conseguenze delle distruzioni apportate alla continuità dell’essere” (2001, 129). A me sembra che non sia esattamente questo il punto e che la sua lettura, peraltro sempre feconda, “aggiunga” troppo al testo winnicottiano. Con l’immagine di una madre e un bambino che “hanno un vissuto comune” Winnicott si appresta a “costruire” quella particolarissima situazione in cui la madre deve avere la capacità, presentando al bambino il seno reale, di garantire dal punto di vista psichico una situazione nella quale il bambino possa avere la sensazione di essere stato lui a crearlo: “Mi rappresento questo processo come se due linee venissero da direzioni opposte, suscettibili di avvicinarsi l’una all’altra. Se si sovrappongono, vi è un momento di illusione, un brano di esperienza che il bambino può prendere sia come sua allucinazione sia come una cosa che appartiene alla realtà esterna” (1945, 184). La nascita di quella funzione psichica fondamentale che è il rapporto con la realtà esterna viene collocata nella possibilità che si crei una sovrapposizione tra qualcosa che proviene dalla psiche della madre e qualcosa che proviene dalla psiche (in fieri) del bambino. Questo passaggio è il luogo di gestazione di noti e fondamentali concetti winnicottiani: oggetti e fenomeni transizionali, oggetto soggettivo, area intermedia, spazio potenziale, qui ancora inespressi. Ma soprattutto, sottolineando la funzione di “garante” della madre e l’idea “che le piacerebbe essere attaccata da un bambino affamato”, Winnicott introduce in embrione nel campo psicoanalitico il punto di vista per cui è necessario prendere in considerazione anche il funzionamento psichico della madre.

In questo testo egli non compie una estensione di questa teorizzazione alla relazione analista paziente. Rileviamo però un brano doppiamente significativo: in primo luogo perché introduce un modo nuovo di concepire la relazione analista paziente e, in secondo luogo, perché questa descrizione sarà quasi interamente riproposta due anni dopo ne “L’odio nel controtransfert”, costituendo in questo modo una sorta di “saldatura” tra i due scritti:

“Intendo con ciò che il paziente, per cui è necessaria l’analisi dell’ambivalenza nei rapporti esterni, ha una concezione fantastica del suo analista e del lavoro dell’analista che è diversa da quella di un paziente depresso. Nel primo caso, il paziente considera il lavoro dell’analista come fatto per amore per lui, essendo l’odio deviato su cose odiose. Il paziente depresso, invece, chiede al suo analista di capire che il suo lavoro di analista costituisce, in una certa misura, il suo sforzo per affrontare la propria depressione (di lui, analista), o, meglio, il senso di colpa ed il dolore che risultano dagli elementi distruttivi contenuti nel suo amore (di lui, analista). Proseguendo lungo questa linea, per il paziente che chiede aiuto nei confronti della sua relazione primitiva predepressiva con gli oggetti è necessario che l’analista possa vedere l’amore e l’odio non dislocati e concomitanti che egli, analista, prova per lui. In questi casi la fine della seduta, la fine dell’analisi e l’applicazione delle regole diventano tutte importanti espressioni di odio, proprio come le buone interpretazioni sono espressione di amore e simbolo di buon cibo e di buone cure. Sarebbe utile sviluppare a fondo questo tema” (1945, 177; trad. modif.). (8)

Il paziente nevrotico che ha una “concezione fantastica” del suo analista si muove sul registro della proiezione. È considerando il paziente depresso che cogliamo un fondamentale mutamento: egli “chiede” al suo analista non semplicemente di comprendere il suo mondo interno, ma di farlo attraverso un lavoro di autoanalisi che non ha il fine di superare macchie cieche, bensì costituisce una condizione necessaria per poter trattare il funzionamento mentale inconscio del paziente. E per il paziente che ha una relazione primitiva predepressiva (siamo nell’ambito di ciò che la Klein un anno dopo definirà posizione schizoparanoide) “è necessario” che l’analista possa vedere qualcosa che appartiene a se stesso. Winnicott non sta ipotizzando una sorta di mimetismo che annulli differenze e distinzioni: piuttosto, qui ritroviamo gli inizi di un modo diverso di concepire, forse ancora inconsapevolmente, la relazione transfert controtransfert: inconsciamente il paziente chiede al proprio analista di trovare dentro di sé qualcosa che il paziente stesso ha fatto nascere o ha evocato in lui. Nella seconda tipologia di pazienti (cioè i pazienti per cui Winnicott utilizza il concetto kleiniano di posizione depressiva) e nella terza (la cui etiologia egli colloca nella fase dello sviluppo emozionale primario) ci troviamo ad avere a che fare con un fenomeno diverso dalla proiezione. È qualcosa che soltanto nello scritto sul controtransfert assumerà una più esplicita configurazione, ma è evidente dal brano citato che egli nel 1945 ipotizza dapprima l’esistenza di una azione inconscia del paziente sull’analista (“chiede di…”); poi un movimento, anche questo inconscio, nella mente dell’analista (la creazione o l’attivazione di qualcosa di analogo a ciò che è attivo nel paziente); quindi un processo di riconoscimento interno da parte dell’analista (che deve rintracciare dentro di sé qualcosa di molto simile a ciò che si trova nel paziente). Non è in gioco soltanto la necessità che l’analista sia in grado di tollerare e contenere emozioni intense che gli fa vivere il paziente: “è necessario” e il paziente “chiede” stanno a indicare che l’analista deve svolgere una funzione psichica (mancante nel paziente) per affrontare (e poi interpretare) ciò che il paziente, non essendo in grado di affrontare, fa vivere all’analista.

È in questo saggio del 1945, quindi, che Winnicott inizia a interrogarsi sulla relazione tra soggettività e oggettività (sia per quanto concerne la nascita della mente, sia per ciò che attiene al funzionamento dell’analista), ambito di ricerca che in forme diverse ha attraversato l’intera storia della psicoanalisi, e che in particolare ha caratterizzato il Middle Group britannico. Ed è proprio questo il terreno sul quale Winnicott fonda le sue idee sul controtransfert. Inoltre, quando sottolinea l’aspetto dell’esperienza vissuta insieme, non sta annullando l’asimmetria della relazione tra madre e bambino (la madre è “matura e abile fisicamente”), ma sta introducendo qualcosa rimasto fin allora fuori del raggio di intervento della teoria psicoanalitica. La concezione del transfert come regione intermedia tra la malattia e la vita e come “palestra” (Freud, 1914), ci ha permesso di comprendere la straordinaria importanza dell’esperienza che il paziente può fare in analisi. Ampliando lo sguardo all’esperienza del bambino che incontra l’esperienza della madre, Winnicott sta complementariamente prendendo in considerazione e richiamando la nostra attenzione sull’esperienza del paziente (nel transfert) che incontra e genera degli effetti sull’esperienza che l’analista ha con il paziente.

3. Una svolta radicale: “L’odio nel controtransfert”                                                                                                                                                                                                                   Non è possibile comprendere la portata teorico clinica dell’articolo del 1947 sul controtransfert senza tenere presenti le concezioni sullo sviluppo psichico nelle fasi più precoci elaborate nel 1945, così come sono incomplete e monche tali concezioni se non vengono lette alla luce del cambiamento di prospettiva che “L’odio nel controtransfert” ci costringe a compiere. Quest’ultimo mostra una disarmante semplicità, e sembra apparentemente privo di una qualche asperità che lasci presagire scenari insospettati. Colpisce peraltro la piattezza con la quale è stato letto, nonché il fatto che sia stato accolto esclusivamente nei termini di un importante contributo sull’uso del controtransfert. (9) Se il primo riferimento di Winnicott è Freud (per riflettere sull’odio nel controtransfert, inizialmente è necessario comprendere un “aspetto particolare del tema dell’ambivalenza”; p. 234), è la focalizzazione del campo clinico – l’analisi degli psicotici e dei soggetti con tendenze anti sociali – che evidenzia un primo spostamento del campo di ricerca. Poiché “il paziente può apprezzare nell’analista solo ciò che egli stesso è capace di sentire” (p. 235), allora il paziente psicotico, trovandosi in uno stato in cui amore e odio coincidono, “proverà la convinzione profonda che anche l’analista è unicamente capace dello stesso stato rozzo e pericoloso” (236). Il compito dell’analista che lavora con pazienti psicotici, si appesantisce notevolmente a causa dell’odio nel controtransfert, e questo può far pensare al bisogno di un’ulteriore analisi per l’analista, ma è necessario considerare il fatto che “l’analisi di uno psicotico possiede la caratteristica di essere ingrata se paragonata a quella di un nevrotico” (p. 234). In altri termini: Winnicott costruisce una cornice che tiene conto della lezione freudiana, ampliandola però per affrontare le specificità cliniche del lavoro con il paziente psicotico.

Questo saggio in realtà non si limita all’esame del lavoro con i pazienti psicotici, ma si snoda intorno a tre “evidenze”: l’analisi con una paziente psicotica, la relazione con un bambino con tendenze anti sociali, il rapporto tra madre e bambino nei primi mesi di vita.

La paziente psicotica e il sogno di controtransfert. Winnicott introduce una situazione clinica notando come da alcuni giorni non riuscisse a lavorare bene con i propri pazienti, e riconducendo questa situazione da un lato a delle difficoltà personali, ma perlopiù alle tensioni che si erano prodotte nel suo lavoro con una specifica paziente psicotica, per la quale non “vi era nessun corpo che potesse riconoscere come suo, e semmai essa esisteva, riusciva a sentirsi unicamente come mente. Qualunque allusione al suo corpo suscitava delle angosce paranoidi, poiché affermare che essa possedeva un corpo significava perseguitarla” (p. 238; trad. mod.). In una seduta, sull’onda dell’irritazione, Winnicott le dice che gli sta chiedendo di “spaccare un capello in quattro”, e gli occorsero diverse settimane per recuperare l’“effetto disastroso” che questo errore ebbe sul trattamento. Poté farlo anche grazie a un sogno “riparatore”, nel quale egli assiste ad uno spettacolo teatrale da un loggione: nella prima parte prova l’angoscia di perdere una parte del corpo (castrazione), mentre nella seconda vede lo spettacolo attraverso le persone che sono in platea, realizzando l’angosciante sensazione di non avere il lato destro del corpo:

“Il lato destro del mio corpo era quello in rapporto con questa paziente particolare, ed era quindi affetto dal suo bisogno di negare nel modo più assoluto perfino una relazione immaginaria tra i nostri due corpi. Questo diniego produceva in me questa angoscia di tipo psicotico, molto meno sopportabile della comune angoscia di castrazione. (…) L’origine di tale irritazione si trovava dunque in un’angoscia reattiva che aveva una qualità che era appropriata al mio contatto con una paziente che non aveva un corpo” (p. 239).

Una prima osservazione inerisce alla questione dell’odio: l’irritazione dell’analista non deriva da una evacuazione che il paziente psicotico attua della propria distruttività scissa, ma nasce da un’angoscia psicotica che appartiene alla paziente (relativa all’avere o non avere un corpo) e che in qualche modo viene sperimentata dall’analista. L’inconscio della paziente ha modificato l’inconscio dell’analista: Winnicott riconduce la propria angoscia psicotica di non avere una parte del corpo, al diniego messo in atto dalla paziente e al suo bisogno che l’analista denegasse perfino l’esistenza di un rapporto immaginario col corpo della paziente. La seconda questione concerne il fatto che nella concettualizzazione della clinica entra in gioco il funzionamento della mente dell’analista per comprendere la mente della paziente. Infatti, non è rilevante l’affermazione che “in certe fasi di certe analisi, l’odio dell’analista è effettivamente richiesto dal paziente, e diventa allora necessario un odio che sia oggettivo” (p. 240), indicazione tecnica che ha catalizzato la lettura di questo saggio suscitando disparate reazioni. Il punto pregnante è che, partendo dall’idea che il paziente grave esercita una pressione sull’inconscio dell’analista fino al punto di fargli provare un’angoscia psicotica, Winnicott modifica il modo di intendere la relazione transfert controtransfert. Infatti, fin dalle primissime battute si va delineando, e diventerà sempre più chiaro col dipanarsi delle situazioni presentate, il tema che rende questo saggio un punto di svolta nella teoria e nella prassi psicoanalitica: il soggetto (paziente psicotico; bambino con tendenze anti sociali; neonato) esercita tensioni più o meno intollerabili sull’oggetto (analista; famiglia affidataria; madre). Ciò che accomuna le tre situazioni descritte, quantunque tra loro eterogenee, è la necessità di rivolgere l’attenzione anche sull’esperienza dell’oggetto e sul lavoro elaborativo che l’oggetto deve fare nei confronti della sua reazione alle “pressioni” del soggetto. Più precisamente, come mi accingo a mostrare poco oltre, inizia a prendere forma l’idea che ciò che rileva da un punto di vista clinico e ovviamente teorico sia la richiesta di lavoro che l’inconscio dell’uno avanza nei confronti dell’inconscio dell’altro. È questa “tensione”, che la paziente fa inconsciamente provare all’analista, che “apre” un campo inesplorato (o malamente percorso da Ferenczi): la risposta dell’oggetto ai movimenti inconsci del soggetto, a causa di una tensione che scaturisce da processi difensivi primitivi. (10) L’indicazione tecnica che Winnicott trae dalla situazione clinica riportata è quella di dover “sopportare la tensione” (p. 239) ma, ai nostri fini, ciò che rileva è il collegamento che qui stabilisce quando afferma che l’analista “si trova nella posizione della madre di un bambino che sta per nascere o è appena nato”: allora ogni dettaglio della tecnica assume un’importanza “vitale” e un valore terapeutico con “quei pazienti le cui esperienze molto precoci sono state così incomplete o così alterate che l’analista dev’essere il primo, nella vita del paziente, a fornire certi elementi ambientali che sono essenziali” (p. 239). (11)

Il bambino anti sociale. Altrettanto decisiva fu l’esperienza che egli fece con un bambino di nove anni inviato in un istituto per bambini evacuati a causa delle sue ripetute fughe, attraverso le quali “salvaguardava inconsciamente l’interno della sua famiglia e proteggeva la madre dagli attacchi, come pure cercava di salvarsi dal suo mondo interno pieno di persecutori” (p. 240). Winnicott decise, insieme alla moglie, di prenderlo con sé a casa propria e, in quelli che furono “tre mesi d’inferno”, svolse un lavoro in una zona di confine tra la psicoterapia e l’esercizio di funzioni genitoriali. Quando il bambino interruppe le fughe, iniziò a drammatizzare gli attacchi persecutori del suo mondo interno, creando una tensione talmente intollerabile che Winnicott decise, in occasione di queste crisi, di prenderlo e metterlo fuori della porta di casa, dandogli la possibilità di rientrare non appena “si riprendeva dal suo attacco maniacale” (p. 241). Ciò che gli consentì di non perdere il controllo e di non picchiarlo mai fu la decisione, ogni volta che lo metteva fuori della porta, di verbalizzargli che ciò che era accaduto gli aveva provocato odio nei suoi confronti. Grazie a questa esperienza Winnicott sperimentò una serie di tensioni che gli permisero, in un certo senso, di costruire un “ponte” con le tensioni cui ci sottopone il paziente psicotico. Il bambino preso in affidamento riproduce nella relazione (transferale controtransferale) che si viene a creare con Winnicott, dinamiche interne precipitate con la disgregazione della sua famiglia di origine: un bambino adottato “trascorre il tempo a cercare inconsciamente i suoi genitori. (…) Avviene, dopo un certo tempo, che, nel bambino così adottato, nasce la speranza, ed egli incomincia a mettere alla prova l’ambiente che ha trovato, ed a cercare la conferma che i suoi genitori adottivi sono capaci di odiare oggettivamente. Sembra quasi che egli possa credere di essere amato solo dopo esser riuscito ad essere odiato” (p. 240).

Anche qui l’accento è apparentemente sull’odio, sulla necessità di conoscerlo e contenerlo e sul bisogno del bambino e del paziente grave di sentirsi odiato per potersi sentire amato. Ma ciò che affiora dalle situazioni descritte sono due questioni che modificano profondamente il modo di concepire e di fare psicoanalisi. Winnicott sta articolando e dando corpo da un punto di vista teorico all’effetto che l’inconscio del paziente esercita sull’inconscio dell’analista e quindi sul suo funzionamento mentale. E, in secondo luogo, sta introducendo una modificazione metodologica, vale a dire la necessità di considerare il funzionamento della mente dell’analista come strumento della ricerca psicoanalitica implicando, questa diversa posizione metodologica, la necessità di considerare oggetto del lavoro e della ricerca psicoanalitica non solo la mente del paziente ma anche (ovviamente in misura e forme diverse) la mente dell’analista. (12)

Mentre nel ripensare l’esperienza clinica con la paziente psicotica, Winnicott si muove ancora perlopiù all’interno del modello kleiniano, le sue considerazioni sul bambino preso in affidamento fanno riferimento solo in parte ad una lettura kleiniana (quando dice che metteva in atto le sue fughe perché proteggeva la madre dagli attacchi e cercava di salvarsi dal suo mondo interno pieno di persecutori): qui il punto centrale è la ricerca inconscia dei genitori da parte del bambino adottato e il suo bisogno di mettere alla prova l’ambiente quando nasce in lui la speranza. Questo tipo di lettura, resa possibile (e necessaria) dalla turbolenza emotiva che il bambino fa vivere a Winnicott, “forza” quest’ultimo a rivolgere l’attenzione sulla risposta dell’oggetto inconsciamente evocata dal soggetto, che costituisce a mio avviso il secondo leitmotiv, accanto alla costruzione del rapporto con la realtà e del senso di essere reali, di tutto il suo lavoro di ricerca. Questa esperienza con un bambino privo della propria famiglia ha contribuito a sostanziare da un lato la metafora dell’analista come madre/genitore che si prende cura del paziente ma, dall’altro lato, ha soprattutto facilitato un passaggio teorico che connettesse e integrasse una visione della mente fondata sugli effetti che l’inconscio del soggetto esercita sull’inconscio dell’oggetto e, nell’economia dell’articolo che sto discutendo, favorisce il “passaggio” dalle considerazioni sulla paziente psicotica a quelle sulla madre di un lattante normale.

La madre e il neonato. Nelle ultime pagine di questo saggio del 1947 incontriamo infine un elenco bizzarro e inaspettato, a prima vista superficiale, a tratti irritante. Un elenco che sembra parlare del rapporto interpersonale tra una madre e un lattante, osservazioni che potremmo credere di rintracciare forse in un libro di divulgazione pediatrica. Un elenco di ben 17 motivi per cui “una madre odia il suo piccolo” prima che egli possa odiare lei:

“Il concepimento (mentale) del bambino non le appartiene.

Il bambino non è quello del gioco dell’infanzia, il bambino del padre, del fratello, ecc.

Il bambino non è prodotto per magia.

Il bambino è un pericolo per il suo corpo durante la gravidanza ed alla nascita.

Il bambino rappresenta un’interferenza nella sua vita privata, una sfida alla precedente occupazione.

In maggiore o minor misura una madre ha la sensazione che sia la propria madre ad esigere un bambino, per cui il suo bambino è prodotto per placare la propria madre.

Il bambino le ferisce i capezzoli anche se succhia, perché succhiare, all’inizio, è masticare.

Il bambino è spietato, la tratta come una feccia, una serva non pagata, una schiava.

Essa deve amarlo, i suoi escrementi e tutto, in ogni caso all’inizio, fino a quando il bambino non avrà dei dubbi si se stesso.

Il bambino cerca di farle male, ogni tanto la morde, tutto per amore.

L’amore ardente del bambino è un amore interessato, per cui, avendo ottenuto ciò che vuole, il bambino getta via la madre come una scorza d’arancio.

Il bambino all’inizio deve dominare, dev’essere protetto dalle coincidenze; bisogna che la vita si svolga secondo il suo ritmo, e tutto questo esige dalla madre un lavoro continuo e minuzioso. Per esempio, la madre non dev’essere ansiosa quando lo tiene, ecc.

All’inizio il bambino non sa assolutamente ciò che la madre fa o sacrifica per lui. E, soprattutto, non può concepire l’odio della madre.

Il bambino è sospettoso, rifiuta il buon cibo dalla madre e la fa dubitare di se stessa, ma mangia bene con la zia.

Dopo una mattina spaventosa con lui, la madre esce, ed il bambino sorride ad un estraneo che dice: ‘com’è carino’.

Se manca nei suoi confronti all’inizio la madre sa che il bambino gliela farà pagare per tutta la vita.

Il bambino la eccita ma la frustra – la madre non deve mangiarlo né avere con lui un rapporto sessuale” (pp. 242 3).

Questo elenco apparentemente descrittivo sortisce al contrario un effetto potente, quello di “costruire” una relazione che, dal vertice osservativo del funzionamento mentale della madre, “dispiega” i derivati del suo inconscio, del suo narcisismo, della sua identità, del suo rapporto con le proprie pulsioni. Descrive cioè una situazione in cui il bambino esercita un effetto sull’inconscio della madre, obbligandola ad un lavoro psichico complesso: un lavoro di elaborazione della propria onnipotenza infantile (il concepimento mentale del bambino non le appartiene, non è il bambino del padre e non è prodotto per magia); di contenimento e trasformazione delle proprie pulsioni ed emozioni intollerabili (il bambino la eccita ma la frustra, non può mangiarlo né avere con lui un rapporto sessuale, non deve essere ansiosa quando lo tiene); di riformulazione della propria identità (è un’interferenza nella sua vita privata, la sua vita deve adattarsi ai ritmi del bambino); di elaborazione delle proprie angosce persecutorie (è un pericolo per il suo corpo durante la gravidanza, le ferisce i capezzoli, cerca di farle male seppure per amore); di incontro e contatto con il proprio mondo interno (ha la sensazione che sia la propria madre ad esigere un bambino); di “cura” del proprio narcisismo (la tratta come una serva, la getta via come una scorza d’arancio, il bambino non sa assolutamente ciò che la madre fa per lui e all’inizio deve dominare, è sospettoso e la fa dubitare di se stessa, deve amarlo anche con i suoi escrementi). Winnicott descrive in questo modo la relazione tra una madre e il proprio figlio per mostrare che è la madre a odiare il proprio neonato prima che questi possa odiare lei, ma la sua descrizione è molto più ricca e va ben oltre i suoi propositi: egli mostra una relazione in cui il bambino “fa lavorare” l’inconscio della madre, e prefigura una situazione in cui a sua volta le articolazioni dell’inconscio materno possono generare effetti sullo sviluppo emozionale del bambino (uno fra tutti, il fatto che un ambiente basato sul diniego dell’odio risulta deleterio sia perché può far nascere forme di masochismo nella madre, sia perché non permette al bambino di tollerare il proprio odio nei confronti dell’oggetto). (13)

Sembra quasi che un “ponte” tra il saggio del 1945 e quello del 1947 fosse lì, pronto per essere trovato: la fonte della ricerca sulla primissima infanzia, cioè sugli albori della vita psichica, è costituita dalle situazioni di transfert con i pazienti psicotici e, contemporaneamente, lo sguardo di Winnicott sulla relazione psichica e inconscia tra madre e neonato permette di cogliere e comprendere aspetti della relazione transfert controtransfert, del funzionamento mentale del paziente grave e dell’origine delle psicosi.

Una lettura approssimativa del lavoro sul controtransfert ci avrebbe permesso di rintracciare la compresenza di tre livelli: vale a dire un livello teorico (poiché esistono ben 17 motivi che ci spingono a ipotizzare una “precedenza” dell’odio materno su quello del neonato, allora perde pregnanza, nel modello di funzionamento della mente nello stadio più precoce, la dimensione innata della pulsione di morte); un livello clinico (affinché lo psicotico acquisisca la capacità di distinguere l’odio dall’amore, deve entrare in contatto con un oggetto in grado di provare e tollerare odio nei suoi confronti); un livello di teoria della tecnica (accanto al controtransfert come macchia cieca, c’è una forma che costituisce la specifica identità di quel singolo analista, ed esiste infine un controtransfert oggettivo in reazione alla personalità di quello specifico paziente). Ma l’intersezione di questi tre livelli e l’esplicitazione degli effetti del loro reciproco interagire ci permette di scorgere un nuovo e inaspettato scenario che si dipanerà lungo il successivo quarto di secolo nel lavoro teorico e clinico di Winnicott. Tale integrazione non avviene semplicemente nell’ambito della clinica e quindi del controtransfert, ma realizza quello Junktim di freudiana memoria – cioè il legame inscindibile fra teoria, pratica e ricerca –, e attraversa “aree” molto diverse del funzionamento mentale: l’effetto della mente dello psicotico sulla mente dell’analista; l’effetto della mente di un bambino con tendenze antisociali sulla mente di un genitore adottivo; gli effetti del funzionamento mentale di un lattante sulla propria madre e, contemporaneamente, gli effetti del funzionamento mentale della madre sullo sviluppo emozionale del bambino. In questo modo Winnicott crea una interconnessione nuova per la psicoanalisi, poiché integra in un unico quadro teorico clinico una concezione delle primissime fasi dell’evoluzione della mente (il neonato ha bisogno di un ambiente capace di tollerare l’odio, per poter odiare e per poter giungere ad una integrazione di odio e amore), una teoria del funzionamento mentale patologico (il paziente psicotico non può arrivare a tollerare il proprio odio e a distinguerlo dall’amore, se l’analista non è in grado di tollerare l’odio che il paziente suscita in lui), una teoria della tecnica coerente con entrambe (l’inconscio dell’analista riceve, come diceva Freud, le comunicazioni dell’inconscio del paziente: queste ultime modificano la mente dell’analista). (14)

Risulta alquanto superficiale, fuorviante e inutilmente parziale, quindi, la visione di un Winnicott impegnato semplicemente a magnificare l’importanza dell’ambiente: in questo saggio, al contrario, diventa evidente come la visione del funzionamento psichico (nella diacronia dello sviluppo e nella sincronicità della situazione analitica) sia fondata sul principio radicale (e assolutamente innovativo) per cui il funzionamento inconscio dell’oggetto, nonché le sue trasformazioni causate dall’inconscio del soggetto, vadano indagati e ri trasformati perché il soggetto possa avviare una trasformazione psichica. Lungi dall’essere una mera introduzione, nella teoria della tecnica, della arbitraria soggettività dell’analista, questo saggio prefigura una modificazione sia del paradigma freudiano che di quello kleiniano poiché mostra nella clinica, nella teoria dello sviluppo della mente e nella teoria della tecnica non solo la dimensione intrapsichica, né unicamente quella propria delle relazioni oggettuali inconsce. L’apertura rivoluzionaria compiuta da Winnicott con questa sua lettura della situazione analitica e della relazione madre bambino, consiste nel costruire uno spazio fin allora inesistente (o esistente embrionalmente nella lapidaria affermazione di Freud del 1912 sulla comunicazione tra inconsci): rende visibili nel campo della ricerca psicoanalitica fenomeni che sono effetto dell’azione (reciproca) dell’inconscio del paziente sull’inconscio dell’analista: è possibile osservare tali fenomeni, è necessario analizzarli, è legittimo utilizzarli nella comprensione del funzionamento psichico e nella sua trasformazione attraverso l’analisi. Ma questo avrebbe equivalso ad un semplice approfondimento clinico dell’intuizione freudiana. Ciò che ne fa un punto di svolta radicale è l’aver mostrato che la nascita e lo sviluppo della mente dipende oltre che da un lavoro di costruzione intrapsichico, anche da processi inconsci di costruzione interpsichica, tanto nella primissima infanzia quanto nella relazione analitica. E qui risiede un’ulteriore differenza rispetto a Freud e alla Klein: non si tratta solo di una comunicazione da inconscio a inconscio, ma è in gioco la capacità effettuale di un inconscio sull’altro. (15) L’inconscio del soggetto non si limita cioè a comunicare all’inconscio dell’oggetto (e viceversa), ma produce degli effetti e lo modifica. L’inconscio dell’uno avanza una richiesta di lavoro psichico all’inconscio dell’altro. La questione non è meramente quella di tollerare e contenere le emozioni sollecitate dall’altro, bensì di elaborare quanto dall’inconscio dell’altro giunge all’inconscio del soggetto. È questa, ancora implicita eppure al contempo profondamente articolata, l’intuizione (forse inconsapevole) che Winnicott dispiega in questo lavoro: l’esistenza di una rete di movimenti inconsci tra soggetto e oggetto che segnano l’andamento del processo analitico e lo sviluppo della psiche del bambino. Una rete di movimenti inconsci che attiva le funzioni psichiche dell’analista e della madre, permettendo lo sviluppo delle funzioni psichiche mancanti nel paziente e in statu nascendi nel neonato. I frutti di questa posizione teorico clinica di Winnicott matureranno compiutamente nei suoi ultimi scritti (1968, 1969, 1969a). La psicoanalisi contemporanea, o parte di essa (si pensi ai lavori di Ogden, Grotstein, Bollas, Ferro), è tutt’ora impegnata a riscoprirli.

(1) In questo lavoro utilizzerò il termine “soggetto” descrittivamente, cioè in quanto corrispettivo di oggetto, e non approfondirò le importanti questioni teoriche inerenti la definizione di tale concetto. Per una disamina di alcune posizioni in proposito si vedano Ogden (1994), Green (2002: 127 142), Garella (in corso di stampa).

(2) “Secondo me la comprensione intuitiva a livello inconscio da parte dell’analista di ciò che il paziente gli sta comunicando è un fattore essenziale di tutte le analisi e dipende dall’abilità dell’analista di utilizzare il proprio controtransfert come sorta di ‘stazione ricevente’. Nel trattare schizofrenici che abbiano una difficoltà di verbalizzazione così pronunciata la comprensione intuitiva che l’analista raggiunge al livello inconscio attraverso il proprio controtransfertt è anche più importante poiché questa comprensione intuitiva lo aiuta a stabilire che cosa sia realmente importante a quel dato momento” (Rosenfeld, 1952, 75 6).

(3) A tale proposito si veda la sua caustica affermazione in Bion (1974).

(4) La prima Nota, preparata prima del Congresso, consta di una cartella e mezzo; la seconda, dattiloscritta dopo aver preso parte alla discussione del Panel, è lunga poco meno di tre cartelle. Entrambe sono conservate nel “Melanie Klein Archives”, presso la Wellcome Library for the History and Understanding of Medicine.

(5) La dissociazione, gli stati di quiete e di eccitazione, l’autenticità della relazione con la realtà, la crudeltà primitiva e la capacità di preoccuparsi sono solo alcuni dei concetti che fanno la loro prima apparizione in questo testo e che verranno compiutamente sviluppati negli anni successivi.

(6) Nella lettera che Winnicott scrive a M. Balint il 5 2 1960 (in Rodman, 1987), egli da un lato rivendica la reciproca autonomia delle loro ricerche (condotte da “angolature completamente differenti e […] senza esserci influenzati a vicenda”), e dall’altro lato riconosce una sorta di “precedenza” cronologica delle teorie di Balint. In uno scritto del 1937, M. Balint (“proseguendo” la distinzione elaborata da Ferenczi [1933] tra sessualità e tenerezza) aveva descritto la fase più primitiva delle relazioni oggettuali in termini di amore oggettuale primario, affermando che madre e bambino costituiscono una “unità duale” caratterizzata da una interdipendenza pulsionale: l’accento continua ad essere posto sulla soddisfazione libidica.

(7) In diverse occasioni M. Klein (1935, 1952) aveva sottolineato l’importanza delle cure materne, ma non aveva integrato in modo coerente nel suo modello teorico clinico e nella sua teoria della tecnica il ruolo della madre. Analoga considerazione vale per le due famose note in cui Freud (1911, 1915) fa riferimento al ruolo delle funzioni materne.

(8) Questo tema sarà ripreso e sviluppato a fondo proprio ne “L’odio nel controtransfert”.

(9) Tale piattezza è a mio avviso rintracciabile anche nelle biografie intellettuali dedicate a Winnicott: Davis e Wallbridge (1981) sottolineano la sua concezione dell’odio nel rapporto tra madre e bambino; Rodman si limita a definirlo “affascinante”, aggiungendo che è “un’altra pietra miliare nel suo viaggio verso l’acquisizione della capacità di imbrigliare la propria aggressività e di usarla per scopi costruttivi” (2003, 107). Analogamente, Rayner (1991) si limita a considerare il ruolo che tale articolo ebbe negli sviluppi tecnici del controtransfert, a testimonianza di come “non solo la tolleranza della risposta affettiva dell’analista, ma anche il suo apprezzamento e sicuramente l’uso di tale risposta, stessero emergendo e prendendo vita nella Gran Bretagna degli anni Quaranta” (238). La Abram (1996, 172 182) pur offrendone un ampio resoconto, accenna superficialmente al fatto che Winnicott non abbia mai condiviso l’idea della pulsione di morte e al parallelo tracciato tra l’analista che prova odio nei confronti del paziente psicotico e la madre che prova analoghi sentimenti verso il proprio neonato. Qualcosa di simile aveva sottolineato Phillips, che definisce questo articolo “un’opera radicalmente auto rivelatrice” (1988, 97).

(10) Nel suo lavoro del 1950 (nel quale Winnicott non viene citato), P. Heimann si muove nel quadro teorico della rimozione, seguendo la preziosa intuizione di Freud sulla comunicazione tra inconsci.                                                                                                                                                                                                                                                          (
11) A partire da queste considerazioni nasce l’intuizione e l’enfasi sul ruolo terapeutico del setting nei pazienti gravi.

(12) Il nostro pensiero va immediatamente non solo al significato fondativo che ha avuto l’auto analisi di Freud, ma soprattutto a quello straordinario passaggio rintracciabile nella preistoria psicoanalitica, cioè in Studi sull’isteria:

“Da queste esperienze ricevetti l’impressione che fosse effettivamente possibile evocare le serie di rappresentazioni patogene, pur certamente esistenti, con la semplice insistenza; e poiché questa insistenza mi costava fatica e suggeriva l’interpretazione che io dovessi superare una resistenza, ne trassi senz’altro la teoria che col mio lavoro psichico dovessi superare nel paziente una forza psichica, la quale si opponeva a che le rappresentazioni patogene diventassero coscienti (fossero cioè ricordate). Una nuova intelligenza mi parve sorgere in me quando mi venne in mente che poteva trattarsi della medesima forza psichica che aveva cooperato alla genesi del sintomo isterico, impedendo allora che la rappresentazione patogena diventasse cosciente” (1892 95, 406).

Qui, pur non trattandosi di un fenomeno controtransferale, l’osservazione del funzionamento della propria mente permette a Freud di comprendere un aspetto della mente del paziente e, quindi, di formulare un’ipotesi sul funzionamento mentale che contribuirà alla costituzione di un modello della mente, di una teoria patogenetica, e di una modalità tecnica di intervento.

(13) Una formidabile e feconda amplificazione di quella geniale intuizione che ebbe Freud nel 1914 quando colse nell’amore genitoriale “la riproduzione del proprio narcisismo al quale i genitori stessi hanno da tempo rinunciato. [… Il bambino] deve davvero ridiventare il centro e il nocciolo del creato, quel ‘His Majesty the Baby’, che i genitori si sentivano un tempo. […] deve appagare i sogni e i desideri irrealizzati dei suoi genitori […]. Nel punto più vulnerabile del sistema narcisistico – l’immortalità dell’Io che la realtà mette radicalmente in forse – si ottiene sicurezza rifugiandosi nel bambino” (1914, 460 1).

(14) Winnicott presentò questo paper alla British Psycho Analytical Society il 5 febbraio del 1947. Quasi un anno dopo, il 7 gennaio del 1948, egli presentò un altro importante lavoro, “La riparazione in funzione della difesa materna organizzata contro la depressione”, antesignano dei numerosi studi sugli effetti della depressione materna sullo sviluppo psichico del bambino, condotti a partire dagli anni ’70. In questo saggio del 1948 assistiamo alla “realizzazione” della rivoluzione teorico clinica compiuta da Winnicott nel lavoro “L’odio nel controtransfert”.

(15) Una fugace intuizione, ancora forse più ad un livello “ideologico” che teorico clinico, delle conseguenze “effettuali” che può avere l’inconscio del soggetto sull’altro, è rintracciabile in un passaggio, sottolineato da G. Goretti (1997), del celebre lavoro di S. Isaacs pubblicato nel 1948, nel quale afferma che la fantasia inconscia è “una funzione mentale reale ed ha effetti reali non solo nel mondo interno della mente, ma anche in quello esterno dello sviluppo corporeo e del comportamento del soggetto e, quindi, nella mente e nel corpo delle altre persone” (p. 35).

 

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