di Nicoletta Massone
 
Da sempre la famiglia occupa un posto centrale all’interno della società. E questo non solo perché è il punto di riferimento principale per ogni persona, il luogo a cui si torna quando si sospendono temporaneamente le diverse attività per cercare di comporre secondo un significato tutte le esperienze che si sono fatte durante la giornata. La famiglia è importante anche perché nel suo seno nascono nuovi esseri umani; in questo caso, proprio ad essa viene affidata la specifica funzione di crescere gli individui in modo che possano progredire verso un autonomia adulta. Il compito appena descritto è affrontato all’interno di una situazione molto complessa, ricca di elementi diversi e, spesso, di contraddizioni. Ciò è inevitabile se si pensa che il gruppo familiare è composto da persone di sesso diverso e di età diverse, con differenti bisogni ed esigenze, che intrattengono tra di loro rapporti disomogenei: i figli sono in una posizione di dipendenza dai genitori, mentre questi ultimi mantengono legami più all’insegna dell’aiuto e del sostegno reciproco. Si diceva della dipendenza del bambino; egli è naturalmente preordinato a diventare un uomo o una donna adulta: le sue ossa si allungheranno, gli organi del suo corpo affineranno e perfezioneranno il loro funzionamento, la capacità di comprensione e di discernimento si farà sempre più ricca e complessa. Ma tutto ciò non accade in modo assolutamente indipendente da qualsiasi forma di aiuto. E’ necessario che qualcuno si prenda cura del piccolo essere umano in modo da proteggere il processa di crescita. Ci sarà bisogno di braccia che lo sorreggano perché possa imparare a camminare, di mani pazienti che gli insegnino a servirsi degli oggetti, di una voce che gli faccia compagnia la sera prima d’addormentarsi. Soprattutto servirà qualcuno che possa consolarlo e difenderlo dalle sue paure. Per un bambino la paura è una costante compagna: ogni disagio e ogni dolore possono assumere contorni giganteschi perché non sa sdrammatizzare quello che gli succede. La sua mente è ancora troppo fragile per potere da sola sopportare il peso e l’intensità delle emozioni spiacevoli. Qualcun altro deve fare quello che a lui ancora non riesce: contenere, cioè tenere presso di sé, l’emozione “negativa”, senza il timore di esserne travolto e soprattutto senza pensare che l’unica possibilità di difesa sia la fuga. Imparare a contare solo sulla fuga per difendersi dal dolore, infatti, si rivela ben presto una soluzione poco vantaggiosa e di ciò, sicuramente, ognuno di noi può avere avuto continue quanto dolorose conferme. In primo luogo, si è costretti, proprio perché si fugge, ad eliminare quelle parti della personale esperienza che appaiono collegate ad un qualche disagio, ma, così facendo, la vita stessa nella sua globalità deve essere privata di intere sue parti, risultando, 1 Psicologo Psicoterapeuta spesso, drasticamente impoverita e privata di significato. Non solo: anche la capacità di pensare finisce per essere lesa e menomata. Quando la percezione, ad esempio, presenta qualcosa di spiacevole, ciò corrisponde ad un operazione della mente che correttamente ha decodificato dati provenienti dalla realtà; se non esiste, però, la possibilità di tollerare l’eventuale frustrazione legata a ciò che emerge, la percezione stessa viene annullata e non è più utilizzabile ai fini del personale rapporto con il reale. In questo caso, ogni individuo, ma il bambino in particolare, si priva di strumenti essenziali per meglio adattarsi all’ambiente, correndo il rischio di confinarsi in un suo mondo privato e artificiale, ambiente per certi versi magico e fantastico nel quale solo sembra possibile sopravvivere. Da questo momento in poi, anche l’attività della mente sarà avvolta dalla sensazione del pericolo, visto che bisogna selezionare attentamente tutti i dati per pensare solo quello che si suppone non provochi sofferenza alcuna. In tali condizioni, lo stesso vivere finisce per essere costantemente accompagnato dal sotterraneo timore che quel male da cui si è fuggiti, possa ripresentarsi in modo improvviso, distruggendo ed annientando tutto. Paradossalmente, insomma, quella sofferenza a cui si voleva sottrarre , si è fatta più grande e più incombente e sembra circondare ogni gesto ed ogni pensiero. Per evitare conseguenze così fallimentari, è necessario, si diceva, creare uno spazio mentale allargato, dove le emozioni suscitate da una particolare esperienza non siano più eliminate come patate bollenti, ma possano rimanere collegate al contesto in cui sono nate. La solitudine è tollerabile perché è sempre momentanea, chi se ne è andato, poi tornerà e ancora sarà possibile stare insieme; il disagio per la fame e per il sonno non sono qualcosa di irrimediabile perché esiste una credibile eventualità che qualcuno intervenga a portare sollievo; la rabbia provata per una delusione non è qualcosa che distrugge per sempre ogni possibilità di rapporto e può essere accettata persino dalle persone verso cui è rivolta….Questi ed altri ancora, sono gli atteggiamenti, le operazioni mentali, potremmo dire, che un genitore può insegnare ad un figlio in modo da aiutarlo a non fuggire di fronte a ciò che gli accade, a sopportare quello che sembra insopportabile, a non doversi dividere e frammentare, ma potere crescere tutto intero. E questo aiuto servirà al bambino anche in un ulteriore modo: lentamente, egli potrà imparare a compiere in proprio quelle operazioni di relativizzazione e di sdrammatizzazione del dolore che, per un certo periodo di tempo, altri svolgono al suo posto. Piano, piano, si sentirà sempre più in grado, proprio all’interno della sua famiglia, di appropriarsi degli strumenti necessari per padroneggiare ansie e angosce, ridimensionando il timore che di fronte alla sofferenza non ci sia niente da fare se non rimanerne schiacciati. Questa sicurezza di fondo, che è alla radice della funzione della speranza, permetterà di mantenere il senso delle proporzioni anche di fronte ad avvenimenti dolorosi, a volte tragici, senza il rischio di cadere troppo velocemente nella disperazione. E sulla base di tali presupposti, il bambino comincerà a ritenere di poter costruire un progetto per la sua esistenza, progetto che tiene conto delle sue inclinazioni e dei suoi desideri, visto che questi ultimi resistono all’intensità del dolore. Tutte le caratteristiche descritte sin qui, fanno riferimento all’instaurazione di un clima familiare positivo, dove sembra possibile vivere e crescere, apprendendo ciò che è necessario per questo e sopportandone il dolore immancabilmente connesso. Tale risultato, però, anche se altamente auspicabile, non è così semplice da raggiungere. Può accadere che le figure adulte della famiglia siano esse stesse in difficoltà ad affrontare il dolore a livello mentale. Il timore di soffrire è ancora troppo forte e, in questo caso, il disagio provato dai figli corre il rischio di riattivare la paura di un pericolo totalmente travolgente e distruttivo. Conseguentemente, il bambino può venire investito da questo senso di impotenza e lasciato troppo solo a gestire le sue difficoltà, nell’assenza di un clima che protegga autenticamente la sua crescita. In questa atmosfera, infatti, facilmente prevale la tendenza a soddisfare i bisogni immediati: se il “male” incombe come qualcosa a cui non si può opporre alcuna resistenza, non è nemmeno possibile custodire progetti che si spingano oltre le linee della realtà del momento. L’impossibilità a padroneggiare il presente, poi, spinge fatalmente a sentire il nucleo familiare del tutto indigente e privo di risorsa alcuna: per contro, ciò che appartiene all’esterno, ad altre famiglie o alla società intera, appare improvvisamente come qualcosa di estremamente prezioso, di cui, al limite, ci si può impadronire solo di soppiatto, quasi si consumasse un furto. E se di fronte al dolore, identico è il timore di adulti e di bambini, anche le differenze generazionali tendono ad appiattirsi; la famiglia può trasformarsi in un insieme non ben distinto di persone che condividono identiche mancanze ed identiche paure, nell’assenza di un autorità matura che possa assumersi la responsabilità di portare il peso dell’esperienza quotidiana, elaborandone il significato e relativizzandone il dolore. Inevitabilmente, cresce l’angoscia per la fragilità della famiglia cui si appartiene, per il timore che essa si sgretoli, privando, in tal modo, i suoi membri di quella funzione di confine e di contenimento che ancora fornisce. Forse è questo il rischio che maggiormente attraversa la famiglia del nostro tempo, anche perché i modelli sociali più diffusi fanno riferimento proprio alla modalità della fuga di fronte alla sofferenza e al riconoscimento del limite. L’immagine prevalente è quella di un uomo e di una donna eternamente giovani che devono raggiungere il più rapidamente possibile un largo successo economico, dove l’attività professionale copre la maggior parte del tempo e lascia ai margini i rapporti interpersonali, sia quelli di amicizia che quelli affettivi più profondi. Ogni difficoltà, ogni limite, ancor più la vecchiaia e la morte, sembrano eventi alieni all’umano, quasi una vergogna da camuffare e da nascondere. In queste condizioni, può certo diventare estremamente difficile mantenere un significato alla personale esperienza emotiva, sempre così profondamente legata alla contingenza e alla fragilità e alto si può fare il rischio di dover rinunciare a se stessi per identificarsi con quella che sembra l’unica forma possibile e accettata di esistenza.
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