Strane sedute nel tempo del Covid
Note per una circolazione di pensieri…

Di Maria Luisa Algini

Cosa viviamo nelle relazioni analitiche in questo tempo così perturbante?
Chissà come lo avrebbe chiamato Freud, che oltre i traumi delle guerre aveva pure perso una figlia in un’altra tremenda epidemia.
Nella mia esperienza, rispetto ai pazienti, appare un panorama variegato. C’è chi accetta, apparentemente in modo tranquillo, di continuare il lavoro analitico usando il telefono o skype. C’è chi rifiuta subito l’ipotesi, dicendo di non aver modo di preservare la privacy con tutti i familiari a casa. Soprattutto gli adolescenti. C’è chi, pur vivendo da solo e dunque senza problemi simili, declina la proposta come fosse fuori luogo, sconcertato o infastidito non si sa. C’è chi dice: ci penserò e non si fa più vivo. E, ancora, c’è chi ci precede proponendo un “sospendiamo” che suona come un “interrompiamo”.
Con una persona mi è venuta una battuta, volta lì per lì a proporre un senso diverso, ma certamente dettata dal mio smarrimento profondo: restiamo sospesi, ho risposto, in attesa di poterci rincontrare.
Chiuso il telefono, mi è venuta in mente la serie dei ponti giapponesi di Hokusai, i ponti del “mondo fluttuante”: sospesi su rupi scoscese, su fiumi dentro canyons profondi o su distese di acque sconfinanti nell’indistinto. Ho pensato che siamo proprio così, sul fragile ponte del giorno dopo giorno, fluttuanti tra un prima ormai irreversibilmente finito e un futuro nella nebbia.
Stare sospesi è angoscioso, si può precipitare, si può non reggere e disperarsi, travolti da intense angosce di morte. Ma la sospensione potrebbe anche essere quel momento in cui si raccolgono le forze per resistere e ripartire. E, da quella
posizione, si possono considerare dettagli diversi del panorama.
Così, mi chiedo non solo cosa ci dicono le diverse risposte dei pazienti, ma cosa di noi si può rispecchiare in loro.
Parto dall’inconsueta esperienza con chi fa le sedute via telefono o skype. In questo caso, se di solito si usa il lettino, tolgo il video non appena ci siamo salutati e lo rimetto alla fine. E’ un attimo, ma sufficiente per intravvedere un
abbigliamento inusuale, qualche animale vagante, una casa sconosciuta con oggetti magari evocati dal paziente ma da me solo immaginati.

Poi ha inizio un altro tipo di contatto. Una strana intimità. La voce diventa determinante, una voce che è quella nota, ma insieme non più quella. Una nuova sensorialità impronta l’ascolto. Le parole risuonano corpose. Chi parlava pochissimo, parla stranamente di più. Chi già parlava ti inonda, indugia in particolari. Il silenzio, spesso più breve, è un altro silenzio.
Si capisce che bisogna cercare una nuova posizione interna e aiutare l’altro a trovarla contenendo l’indefinibile angoscia che circola.
Ma è solo il mezzo utilizzato a rendere tutto così diverso? Sì e no.
Rifletto sulla valenza decisiva dell’essere due corpi nella stessa stanza. Lì, pur a distanza e in silenzio, si comunica anche con il respiro e il sospiro, con i movimenti impercettibili della postura, con il frusciare dei fazzoletti di carta o
dei vestiti sulla poltrona. E per di più ci si vede, o per lo meno si sa che l’altro non esce dalla scena.
Adesso, quando l’altro non parla, dove sta e cosa fa?… L’interrogativo è reciproco.
Sarà per colmare coordinate sensoriali mancanti che si è portati a parlare di più o comunque a dare la sensazione che il ritmo tra parole e silenzi sia modificato? O perché la tensione a ritrovare l’assetto consueto del setting, non fa che
riattivare il sentimento della sua mancanza, e fa acutamente avvertire lo scarto con il mezzo sostitutivo che si sta usando. L’angoscia potrebbe essere anche quella di non saper governare qualcosa di essenziale per l’analisi.
Si coglie più che mai, evocando Laplanche appena riletto per il Cantiere Freud, come il setting sia l’instaurazione di un luogo pulsionale puro, dove può riattivarsi l’originario. E come la stanza di analisi, luogo ben distinto da tutti gli
ambiti quotidiani, sia investita di qualità simbolizzanti che consentono l’attivazione del transfert “nel pieno e nel vuoto”.
Chissà, allora, se chi rifiuta le sedute via telefono o skype, in nome della privacy, ci sta dicendo non solo un dato di realtà, ma pure che è in difficoltà su questo, che non ce la fa a entrare in modalità nuove per ricontattare quella
dimensione unica scoperta nel luogo oltre che nel tempo dell’analisi. Potrebbe rifiutare una proposta che lo confonde e temporaneamente rinunciare proprio per conservare e proteggere l’analisi stessa.
Peraltro, nelle sedute via telefono o skype c’è a volte la percezione di una più intensa intimità, spesso perturbante. Ci si sente stranamente vicini. Mi chiedo quanto possa dipendere dal fatto che quei mezzi fungono da limite rassicurante, e alcune difese si possono allentare.
Ma credo ci sia altro. Tento un’ipotesi. Alla inconsueta modalità di comunicazione siamo costretti perché accomunati
da un evento epocale. Rispetto all’imprevedibilità del contagio, alla precarietà del restare vivi, alle incognite sul lascito futuro, siamo tutti uguali, analisti e pazienti.
Questo potrebbe rendere percepibili sotto forma di “strana intimità” le inconsce simmetrie che impregnano la relazione analitica e che spesso dimentichiamo. Non c’è solo il piano autoconservativo del salvarsi la vita che vale per tutti. Se ci siamo coinvolti con quel paziente è perché possiamo lavorare su aree di personale diversità con lui, cioè su un piano di asimmetria,
ma anche, contemporaneamente, su aree comuni per la maggior parte inconsce, che consentono empatie, reciproche identificazioni, riconoscimenti, condivisioni e comuni trasformazioni.
La strana imprevista intimità di queste sedute speciali, potrebbe allora scaturire da una inconscia intensificazione di alleanze su questi livelli, per far fronte insieme al comune pericolo. Siamo anche noi analisti ad aver bisogno di mantenere le sedute e a proporne la continuazione. Aiutare l’altro a transitare sui ponti sospesi è pur sempre riuscire ad attraversarli noi stessi.
Soprattutto, pur con la varietà delle situazioni e difese soggettive, c’è da far fronte insieme a un immane dolore collettivo che in vario modo ci investe tutti.
Penso in particolare a chi cura i malati, a chi attraversa la malattia da solo, chi muore solo e chi resta solo vedendo morire sole le persone amate. E’ quel “grande lutto collettivo” su cui Freud riflette negli scritti del tempo di guerra: Noi e la morte, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, Caducità, per arrivare a Lutto e melanconia.
Per concludere, tornando ai ponti del mondo fluttuante…
Mi chiedo quale ponte saremo capaci di elaborare tra quanto sta succedendo nella realtà esterna e nella realtà interna di ciascuno. Questa pandemia, con la paura del contagio, con l’incognita di cure possibili o impossibili, con la
costrizione alla prigionia forzata e indefinita, prende in ognuno forme differenti sull’onda dei personali fantasmi arcaici. Scatena paranoie, maniacalità, ossessioni, angosce di tutti i tipi, aggressività, violenze. Accanto a nuove consapevolezze e al riconoscimento dell’importanza dei legami.
Come si coniugano l’adesso e l’allora? Anche nei bambini che non riusciamo più a incontrare, e ne avranno la crescita segnata…
Il virus è l’alieno che ci prende e ci annienta. E’ un’altra vita che si vuole impossessare della nostra. Non solo di quella individuale, ma addirittura di quella della specie. Quali vie di pensiero clinico e teorico ci sta aprendo questa
catastrofe epocale? Riusciremo a camminare sulle orme di Freud che dopo la Grande Guerra ha ripensato l’intera sua teoria e proposto lo scenario più che mai attuale di una titanica lotta tra forze di legame e di slegamento?
Il desiderio è di riuscire a condividere pensieri su interrogativi senza fine.

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